
Ultimo romanzo incompiuto di Kafka, salvato da Max Brod alla distruzione che lo scrittore boemo aveva chiesto per tutto il suo materiale inedito alla sua morte.
Ci sono libri che raccontano una storia, che aprono un arco narrativo e lo chiudono, appagando una traiettoria logica: inizio, centro, fine. E poi ci sono libri, come questo, che schiudono una piccola fessura su una dimensione diversa, ambigua, transitoria e potrebbero non finire mai, esattamente come in questo caso, in cui non arriva un finale a chiudere la storia dell’agrimensore K.
I personaggi (K., Barbabas, Olga, Frieda, Klamm) sono poco più che marionette, animate da tiranti invisibili che le collegano, e la loro consistenza sembra nascere proprio dalle connessioni tra loro più che da un loro definito carattere.
La storia è presto detta: K. arriva al castello, dove è stato chiamato per fare l’agrimensore, ma non potrà mai farlo. Si troverà in una dimensione gerarchica strutturata fatta di Signori, Segretari e Messaggeri, avrà una storia d’amore (d’amore?) con Frieda, cameriera in una locanda, vivranno insieme una vita quasi matrimoniale nella stanzetta di una scuola, funestata da due assistenti esuberanti.
I personaggi hanno i loro drammi e i loro struggimenti, ma sembrano fatti per essere dissolti e lasciare spazio all’ambiguità. A ogni momento, nel libro, non possiamo poggiare un passo sicuro, non facciamo in tempo a credere alla verità di qualcosa che subito viene smentita. È una narrativa costruita per somma di piccole situazioni, di conseguenze, azioni e reazioni che però non sempre sono decifrabili.
È un gioco di pupazzi che diventa tridimensionale nella dimensione del tormento, uno svuotamento del modello di Dostoevskij in cui non c’è più il delitto, ma solo il castigo (o meglio, la pena).
Non è difficile vedere nell’inaccessibile castello (che a veder bene è una serie di costruzioni, non un’unica grande struttura) un calco della Fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari di Buzzati o nei due genitori di Barbabas gli spettri di Nagg e Nell nel Finale di partita beckettiano. La scrittura di Kafka lascia un segno che si amplifica nel tempo e segna opere e autori distanti, come L’inquilino del terzo piano di Roland Topor, Epepe di Ferenc Karinthy, Eraserhead di David Lynch, la serie Scissione di Ben Stiller. Il comune denominatore è il Perturbante: “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, definito da Freud in un saggio pubblicato nel 1919, quattro anni dopo la pubblicazione del racconto La Metamorfosi di Kafka.
All’inizio del bellissimo libro di racconti Quattro novelle sulle apparenze di Gianni Celati è citato in esergo uno scritto giovanile di Kafka: “Poiché noi siamo come tronchi d’albero nella neve. Apparentemente vi aderiscono sopra, ben lisci, e con una scossa si dovrebbe poterli spingere da parte. No, non si può, perché sono legati saldamente al suolo. Però guarda, anche questa è soltanto un’apparenza”. Questo scritto trova eco tra le pagine del Castello: “Tutto ciò non poteva avere un’importanza decisiva, era solo apparenza e non poteva risultarne che apparenza.”
Tutto il mondo è un’apparenza che nasconde altre apparenze, guidate da forze sottili e nascoste, da debolezze quotidiane e invincibili.
Questo per Kafka, questo per noi.
Ivan Talarico
Citazione:
Certo un rischio c’era, e la lettera lo sottolineava abbastanza, lo descriveva anzi con un certo compiacimento, come se fosse una cosa inevitabile. Era la condizione d’impiegato: servizio, superiori, compiti, remunerazione, rendiconti, lavoratori, la lettera pullulava di tutto questo, e anche quando parlava d’altro, di cose più personali, lo faceva sempre da quel punto di vista. Se K. voleva diventare un impiegato, facesse pure, ma allora davvero con tutta la terribile serietà che escludeva ogni altra prospettiva. K. sapeva di non essere minacciato da una costrizione reale, non la temeva, in questa circostanza meno che in altre, temeva invece la violenza di un ambiente scoraggiante, quella dell’abitudine alle delusioni, la violenza degli impercettibili influssi che ogni istante esercita, ma era necessario che egli osasse affrontare questo pericolo. La lettera non taceva del resto che, se si fosse arrivati a degli scontri, era K. che aveva avuto la temerarietà d’incominciare.
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