Trama: Fiamma è stata in coma criogenico per 100 anni nell’ospedale di Avezzano. L’infermiere Biagio le dice che la città ha conquistato il mondo e si è estesa su tutte le terre emerse. Viene dimessa. È sola, non ricorda nulla e vuole capire chi è. Due pazienti dimessi con lei, Marco e Carla, si offrono di ospitarla. Dopo una settimana Fiamma scappa da casa loro (perché?) e prende il treno Avezzano-Avezzano. Sul treno incontra l’affascinante Anita.
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DA INSERIRE
Fiamma è seduta su un divano rosso, perfettamente abbinato ai suoi capelli, con le spalle abbandonate e lo sguardo fisso nel vuoto. Ripensa a quando ha aperto gli occhi, alla sensazione di estraneità provata nel trovarsi in mezzo a dieci persone indaffarate. Tra tutti quegli sguardi aveva visto due occhi verdi grandissimi, e riconoscendoli aveva sentito il cuore scoppiarle di gioia. Quegli occhi però non l’avevano mai riconosciuta, e si era sentita persa. Più tardi era arrivato un infermiere, moro, alto, sorridente e sicuro di sé, che aveva detto di chiamarsi Biagio e di essersi occupato di lei negli ultimi cinque anni. Le aveva raccontato che era stata in coma per cento anni, e l’aveva aggiornata sull’incredibile vicenda di Avezzano che aveva conquistato il mondo.
Carla e Marco avevano avuto uno stupido incidente in macchina, erano finiti in coma ed erano rimasti nella sua stanza per un po’. L’avevano accolta a casa perché dopo cento anni non c’è più niente e nessuno ad aspettarti. La sera precedente le avevano raccontato una strana storia della loro infanzia: il loro padre era prima sparito, e poi ricomparso dopo una breve assenza della madre. Non avevano mai saputo cosa fosse davvero successo, li aveva colpiti come i loro genitori fossero tornati distrutti. Si ricordavano che dopo quel ritorno per vari giorni era stato impedito loro di uscire.
Fiamma non capiva. Marco e Carla erano fratello e sorella, lui studiava fisica e giocava a calcio, lei giurisprudenza e suonava il violino, avevano avuto un padre morto come Biagio, e una madre che sembrava essere andata a riprenderlo nel Regno dei Morti come aveva fatto lei. Sembrava avessero vissuto l’invasione dei morti nel Regno dei Vivi. Tutto tornava ma loro non erano figli suoi. Lei glielo aveva chiesto, discretamente, la mattina stessa, e loro l’avevano guardata preoccupati. Le scoppiava la testa e non capiva.
Questo dubbio arrivava insieme a un altro: la storia del mondo che diventa Avezzano sembrava assurda. Era assurda, come erano assurdi i ricordi del tempo vissuto durante il coma. Forse era ancora in coma? Forse era quella vita fintamente coerente che faceva sulla Terra prima di quel maledetto salto che non esisteva?
Poi, c’era un grande problema. Aveva sempre avuto una sola unica certezza, che aveva sentito incrollabile sia nel tempo che veniva prima che in quello che veniva dopo quel salto: non voleva vivere ad Avezzano. Se viveva in un inganno, le bastava prendere un treno per capirlo. Se tutto questo era vero, lei non poteva rassegnarsi all’idea che non ci fosse un solo angolo nel mondo in cui non le fosse possibile esaudire questo desiderio.
Fiamma va in stazione e chiede un biglietto per la destinazione più lontana che c’è. Vede scritto: «Avezzano-Avezzano». L’incubo sembra vero, ma lei non si arrende. Sale, trafelata e combattiva, sul treno. Vede una donna che ha il suo stesso sguardo. Si guardano, Fiamma si sente riconosciuta, e questa donna dice: «Piacere, Anita».
Aveva aperto gli occhi appena in tempo per vedere i suoi ricordi sfumare nelle luci al neon sul soffitto bianco.
Biagio (alto, occhi neri annoiati e camice bianco) le staccò la flebo. Gli chiese dove fossero.
«Avezzano», le rispose. «Avezzano è Ovunque.»
La aiutò a sollevarsi e le passò i vestiti puliti. Lei lasciò scorrere le dita tra le tracce del sangue sbiadito su una giacca che doveva essere sua. Passò i polpastrelli sui bottoni ancora lucidi, provò a ricordare, ma l’unica immagine che riaffiorava era quella un po’ vaga di un volo.
Intanto, Carla si era già rivestita e stava aiutando Marco, che non sentiva più le braccia, a infilare la camicia.
«Mi conosci?», le chiese Fiamma.
«No.»
«Sai chi sono?»
«È irrilevante.»
Carla le spiegò che erano stati indotti in uno stato di coma criogenico per cento anni e che, se anche avesse infine ricordato qualcosa, comunque non esisteva più nessuno che si ricordasse di lei.
Le sconsigliò, pertanto, la fatica di provarci.
«Puoi stare da noi.»
Fiamma trovò la proposta confortante.
Marco e Carla abitavano al settimo piano di un appartamento alla periferia di Avezzano (tutto il mondo, a parte la vecchia Avezzano, era alla periferia di Avezzano).
La porta d’ingresso in noce, dalle vetrate scure e la maniglia in ottone, fu riassorbita dalla parete immediatamente dopo essersi richiusa alle loro spalle.
Se anche Fiamma avesse ricordato qualcosa, considerò Carla, nessuno si sarebbe comunque ricordato di lei. Le sconsigliò, pertanto, la fatica di uscire.
Carla aveva messo a sedere Marco, che non sentiva più le gambe. Poi la accompagnò nella stanza dove l’avrebbero ospitata.
Accanto all’armadio, uno scaffale straripante di selezioni complete di pasti sostitutivi Herbalife: tutto ciò che restava del concetto di cibo.
Dopo una settimana, Fiamma rivalutò l’idea di lanciarsi dalla finestra.
Una forza di gravità un po’ più stanca del solito, o forse solo il nuovo meccanismo di regolazione dei suicidi dai piani alti, funzionante secondo il calendario previsto per il lavaggio delle strade, la lasciò seduta al bar davanti a uno spritz e a un biglietto del treno per Avezzano.
Partenza alle 16:15: aveva tutto il tempo di finire lo spritz e raggiungere la stazione.
Dagli altoparlanti, voci in dialetto marsicano dicevano qualcosa che, tradotto, faceva più o meno così:
«Il treno AZ16124G1578 per Avezzano è in partenza dal binario 436»;
«Il treno GU3578A243 in arrivo da Avezzano si fermerà al binario 108 invece che al binario 217.»
Fiamma entrò nello scompartimento un istante prima del decollo. La stessa voce, nello stesso dialetto, comunicò che il viaggio sarebbe durato non più di otto minuti.
«Niente Campari nello spritz: ricordavo bene?»
Capelli scuri, occhi verdi, un sorriso.
«Sono Anita: quando saremo arrivate ti ricorderai di me.»
Qualcuno di noi sa com’è risvegliarsi dal coma?
Possiamo paragonarlo al risveglio dopo un’anestesia, forse. Pian piano si aprono gli occhi, si familiarizza con le forme, i suoni diventano parole e si ritrova il linguaggio e la grammatica.
Allora partono le domande:
«Chi sono? Dove mi trovo? E chi sei tu?»
«Mi chiamo Biagio. Tu sei Fiamma. Sei stata in coma cento anni. Ora sei sveglia. E siamo ad Avezzano, ovviamente.»
A Fiamma piacciono subito gli occhi dolci di Biagio, le fanno tenerezza e ispirano fiducia. D’altra parte, non c’è nessun altro a cui chiedere spiegazioni. E lei ha un sacco di perplessità.
«Sicuro che il mio nome è Fiamma? Non l’ho mai sentito. E poi Avezzano… che razza di posto è? Mi dici dove siamo nel mondo?»
«Che domande… Avezzano è Avezzano. Ed è il mondo intero oramai. In questi cento anni c’è stato un importante assestamento. Si è concretizzato quello che chiamavamo Secondo Principio della Termodinamica (o era il Terzo?). Insomma, quella roba dove tutto è ormai in equilibrio e non esiste più il movimento perché siamo tutti nello stesso posto. E questo posto è Avezzano.»
«E allora noi due? E quella coppia lì in corridoio? Hanno delle valigie e delle chiavi… vuol dire che stanno partendo oppure stanno tornando?»
«Certo», dice Biagio «gli spostamenti sono possibili, ma sempre relativi. Non importa che sia una partenza o un ritorno, in ogni caso origine e destinazione coincidono.»
«Hanno dei lineamenti familiari, posso conoscerli?»
Biagio li invita ad entrare e loro si presentano. Sono Carla e Marco, fratelli gemelli, che vedendo Fiamma in difficoltà le offrono ospitalità nella loro casa.
Fiamma accetta e li segue in ascensore. Ma una volta arrivati al piano terra, l’ascensore torna misteriosamente su e tutti e tre sono trasportati sul tetto dell’ospedale.
A questo punto Fiamma ha come un presentimento e l’istinto di scappare.
C’è uno scivolo sul terrazzo, lei si cala giù velocemente e si ritrova in strada.
Camminando riconosce i cartelloni pubblicitari di una compagnia aerea, ma sembra qualcosa del passato, come se non avesse più senso volare.
Continua a camminare, accelera, corre.
Arriva alla stazione, un treno è proprio quello che ci vuole per andare via.
Si precipita sul primo treno in partenza, al primo binario ed entra nel primo scompartimento.
C’è una donna bellissima, affascinante, che ha i suoi stessi occhi.
«Scusi, io sono Fiamma, mi sa dire dove va questo treno?»
«Piacere, sono Anita. Questo treno va ad Avezzano, ovviamente. Che domande…»
Al risveglio Fiamma era particolarmente disorientata. Era sola e non ricordava nulla. Un infermiere di nome Biagio le disse che era stata in coma per cento anni, per via di una cura sperimentale. Fiamma pianse, ma Biagio la consolò dicendo che non si era persa granché e che il mondo era noioso come sempre. L’unica grande novità, le disse, era che Avezzano, la sua terra d’origine dove lei adesso si trovava ricoverata, aveva conquistato il mondo e occupato tutto lo spazio terrestre a disposizione. Lei rimase scioccata ma lui la tranquillizzò, dicendole che era una cosa molto bella perché finalmente le guerre erano finite per sempre, perché nessuno voleva possedere nient’altro. Ognuno aveva tutto quello che si poteva desiderare.
Fiamma passò gli ultimi giorni di ricovero a piangere, perché non c’era nessuno a farle visita e nessuno che si sarebbe potuta occupare di lei. Per fortuna, però, due pazienti dimessi con lei, due fratelli che erano sopravvissuti per miracolo a un incidente in cui erano rimasti coinvolti, si offrirono di ospitarla a casa loro. La prima settimana Fiamma provò a ricordare qualcosa della sua vita precedente, ma invano. Poi un pomeriggio, rimasta sola mentre i due erano fuori per commissioni, dato che si annoiava moltissimo, iniziò a rovistare nei cassetti del comò nella camera da letto, provando i loro abiti.
A un certo punto fu attratta da una maglietta rossa con delle stampe nere. La provò e immediatamente si sentì male: sentì che la maglietta era stata sua moltissimi anni prima. Il suo profumo non avrebbe mai potuto mentirle. Fiamma aspettò i due ragazzi con ansia, per chiedere loro dove l’avessero comprata o da chi l’avessero ereditata. Marco e Carla, una volta rientrati, risposero senza esitazione:
«La maglietta era un dono che abbiamo ricevuto qualche anno fa da nostra nonna, che a sua volta l’aveva ereditata da sua nonna Anita, moltissimi anni prima.»
Parlando, i due raccontarono a Fiamma che questa lontana parente aveva avuto una vita davvero avvincente che l’aveva vista coinvolta in un omicidio. Mentre Fiamma ascoltava quella storia, provò una strana sensazione. Le gambe iniziarono a tremarle e le vertigini a farle girare la testa. Sentiva qualcosa di strano dentro di lei, ma non sapeva spiegarsi come mai. Il profumo della maglietta adesso la nauseava e non desiderava altro che uscire a prendere un po’ d’aria fresca. Appena giunta sulla soglia, vomitò e capì che quel gran malessere non era altro che il suo terrificante passato che era tornato a farle visita.
Ricordò che aveva una sorella di nome Anita, sposata con un ragazzo di nome Biagio, che però lei amava moltissimo. Ci era finita anche a letto e per questo motivo Anita lo aveva ammazzato. Per il dolore Fiamma aveva provato a buttarsi da un balcone. Improvvisamente capì chi fosse, perché si trovasse lì in quelle condizioni, a chi appartenesse. Soprattutto, realizzò che forse i due fratelli di cui era ospite probabilmente erano i suoi pronipoti.
Un altro conato di vomito la fece esitare in quella zona, ma appena si riprese corse verso la stazione. Doveva fuggire via di là. Prese il primo treno disponibile. Vicino a lei c’era una ragazza davvero affascinante. Si chiamava Anita. Sentire pronunciare quel nome la sconvolse. Poi, diede uno sguardo rapido al tabellone per capire dove fosse diretta. Immediatamente dopo la ragazza accanto a lei esclamò:
«A che ora hai detto che viene a prenderci mamma?»
Sullo schermo una scritta rossa e nera girava sopra le loro teste:
Il treno per l’eterno ritorno è in arrivo in orario al binario 2. Ultima fermata: quella da cui si è partiti.
Gli occhi di Fiamma erano ancora chiusi, ma le palpebre cominciarono a tremare: un forte mal di testa, un brivido in tutto il corpo e di colpo si aprirono. Le pupille erano dilatate, i suoni ovattati. Pian piano una voce cominciò ad echeggiare nella sua testa pesante:
«Signora Fiamma, signora Fiamma, va tutto bene. Mi chiamo Biagio e sono qui per rassicurarla durante il suo dolce risveglio.»
Ma per Fiamma nulla era dolce in quel momento. Il suo corpo era avvolto nella carta argentata mentre, ancora un po’ freddo, si risvegliava da cento anni di coma criogenico. Ma questo ancora non lo sapeva. Si sentiva sicura, ma lucidamente confusa, impaurita ma estremamente curiosa.
«Quale risveglio?», bisbigliò a Biagio, guardandolo confortata dalla sua divisa blu.
«Ha dormito cento anni, cara Fiamma. È tempo di ricominciare a vivere. L’abbiamo fatta riposare così a lungo che ormai tutto il mondo è Avezzano.»
Fiamma non capiva, ma voleva arrivare a capire. La curiosità la riaccese e improvvisamente il corpo diventò molto caldo, come preso da un’emozione. Il battito del cuore accelerò e lei si sentì viva davvero. Ogni cosa era nuova, anche la più scontata. Camminare, per esempio, il contatto dei piedi caldi sul pavimento freddo, lo stupore nel vedere gli alberi al di fuori della finestra, l’aria che le usciva dal naso durante la respirazione o l’acqua che le attraversava il petto mentre beveva per la sua seconda prima volta. Insomma, era pronta a scoprire e scoprirsi.
Firmò i fogli delle dimissioni, da cui apprese le sue precedenti condizioni cliniche, e si diresse fuori dall’ospedale, che sembrava un’astronave nello spazio. Improvvisamente la curiosità lasciò il posto alla paura e ad una profonda sensazione di solitudine. “Chi sono? Dove sto andando? Cosa me ne farò di questa nuova vita? Quanti anni ho? Devo contare gli anni del coma o ricomincio la mia vita dall’età in cui sono stata messa in coma? Cos’è ora il mondo?”. I suoi occhi impauriti ed attoniti cominciarono a scrutare i nomi sui cartelli stradali, sugli autobus, alla stazione dei taxi. “Andrò da Avezzano a Avezzano, oppure potrei andare da Avezzano a Avezzano, passando per Avezzano dove potrei fermarmi a dormire qualche giorno prima di ripartire per Avezzano.” Che confusione. Che paura. Cosa stava succedendo al mondo? Servivano risposte.
Una coppia in lontananza vide Fiamma immobile fra i suoi pensieri in mezzo alla strada. Si avvicinarono con aria preoccupata e le chiesero:
«Ha bisogno di aiuto o di risposte?»
«Di entrambe», disse con voce tremolante Fiamma.
«Piacere, io sono Carla e lui è Marco. Siamo stati dimessi dall’ospedale qualche ora fa ed anche noi, come lei, ci siamo sentiti inizialmente spaesati. Poi Marco ha avuto come dei déjà-vu ed ha visto, fra le altre cose, una casa in campagna vicino ad un vecchio fienile. Potrebbe essere la nostra vecchia casa. Abbiamo chiesto ad un tassista se qui nei dintorni ci fosse qualcosa di simile e ci ha indicato di proseguire sulla strada di Avezzano dove ancora non sono arrivate le nuove costruzioni. Vuole venire con noi?», chiese Marco.
Solo un secco e acuto «Sì» riuscì ad uscire dalla bocca di Fiamma. Presero l’autobus che portava ad Avezzano e scesero alla fermata Avezzano. Entrarono in casa e Fiamma trovò, inaspettatamente, di fronte a sé altre venti persone. Cominciarono a raccontarsi ed a raccontare le loro sensazioni da risveglio. Fiamma fu assertiva. Qualcosa non le tornava. Pensò che Carla e Marco fossero due impostori che abbordavano i pazienti usciti dall’ospedale per riunirli e formare un gruppo segreto che avrebbe iniziato una guerra ad Avezzano, contrariati per la formazione di un’unica e grande Avezzano.
Così scappò, salì sul treno per Avezzano, senza biglietto, e si sedette sul primo posto disponibile. Di fronte a lei Anita si presentò. Anche lei era scappata da Carla e Marco.
«Buongiorno Avezzanesi! Oggi il sole splende sui domini dell’emisfero boreale, mentre nell’emisfero australe continuano ad imperversare forti piogge e temporali.»
Tutte le mattine il bollettino meteo dava il buongiorno a Fiamma che, per prima cosa, guardava fuori dalla finestra per verificare l’esattezza delle previsioni – azione che le confermava di essere tornata alla vita dopo cento anni di sonno di ghiaccio.
Ogni giorno, durante le due ore di fisioterapia, l’infermiere Biagio le dava lezioni di storia, narrandole della nascita dell’Impero di Avezzano e dell’origine del motto Omnes Avezzanenses Sunt. La sua amnesia dopo il coma era totale e Biagio le stava insegnando non solo a camminare, ma a scoprire il suo nuovo presente. I suoi occhi verdi la ipnotizzarono da subito. Ci volle del tempo per capire che quell’uomo basso, quasi calvo, con un volto insolitamente triste, era in realtà un androide.
Più apprendeva cose sul presente, più Fiamma voleva ricostruire il suo passato e capire come era arrivata fin lì. Ma era sola, cosa poteva fare?
Venne il giorno delle dimissioni. Fiamma stava cercando di capire cosa avrebbe fatto ora che era fuori dall’ospedale. Le si avvicinarono due ragazzi, che le chiesero di potersi fare una foto con lei e le chiesero un autografo. Fu così che Fiamma scoprì di essere incredibilmente famosa e che il suo “incidente” aveva dato vita all’impero avezzanese, nato al grido di GIUSTIZIA PER FIAMMA!
Carla e Marco, così si chiamavano i due fan, vedendola smarrita, si offrirono di darle una mano e la portarono a casa loro.
Una settimana dopo, Fiamma si ritrovò a casa loro da sola. Mentre dava una rassettata per rendersi utile, spostando un mobile, trovò una foto che la ritraeva con un cartello in mano: “SE NON TORNO, BRUCIA TUTTO!”, c’era scritto. Si spaventò. Era davvero a causa sua che il mondo si era trasformato? Cos’era accaduto davvero?
Corse via e puntò dritto alla Stazione Centrale: doveva tornare alle origini di tutto. Doveva rientrare nella vecchia città di Avezzano.
Si addormentò sul treno quasi subito, con i battiti ancora accelerati dalla fuga. Sognò Biagio, ma non era un androide: era vivo, mentre lei invece era viva pur essendo morta. Sognò Avezzano, le nozze con Biagio e i figli adottati che avevano le fattezze dei due giovani che l’avevano aiutata. Allora si risvegliò.
Davanti a lei era seduta una donna. Disse di chiamarsi Anita. Guardandola, Fiamma ebbe l’impressione di conoscerla. Ritrovava qualcosa di familiare in quella donna dall’età avanzata.
«È mai stata nella città vecchia?»
«Molto tempo fa, credo. E lei?»
«Io ci sono nata.»
Arrivate ad Avezzano, Anita si offrì di mostrarle la città. Girando per il paese, arrivarono davanti casa di Anita e lì Fiamma ebbe un sussulto.
«Questo posto lo conosco!» disse Fiamma, incredula.
«Bentornata a casa, sorellona!»
DA INSERIRE
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«Un biglietto per Roma Termini. Velocemente, grazie.»
«Prego?»
«Ho bisogno di un biglietto per Roma. Alla svelta, non le posso spiegare.»
Non le potevo davvero spiegare da che cosa stavo scappando. O forse, tutto sommato, in questo mondo così assurdo in cui mi sono risvegliata non sarebbe stato tanto sorprendente il mio racconto.
«Signora, i nostri Freccia Avezzano hanno una rete estesa in qualsiasi angolo del paese, ma non hanno la facoltà di viaggiare nel tempo. Almeno per il momento.»
Buttai velocemente un occhio dietro le mie spalle per paura di essere stata raggiunta e mi arresi subito alla possibilità di capire quale fosse il problema.
«Va bene il primo treno per una destinazione qualsiasi. Il più lontano possibile da qui.»
«Ecco a lei. L’Avezzano-Avezzano delle 17, binario 12.»
Fu in quel momento che il mio occhio cadde sul tabellone delle partenze, dove c’era riportata una sola parola: Avezzano. Lo stesso nel tabellone a fianco, quello degli arrivi. Avezzano delle 16:37. Avezzano delle 16:46. Avezzano delle 16:58, in ritardo. A fianco, il cartellone della pubblicità:
«Guida la Avezzano Avenger 4×4 e vola dove vuoi.»
Poco sotto, il negozio di intimo maschile con un accattivante claim:
«Slip antigravitazionali: un piacere grande come Avezzano.»
Le parole di Biagio, l’infermiere, suonavano più chiare ora. Quando mi ero svegliata in quella clinica per super ricchi non mi ricordavo nulla.
«Sei qui ad Avezzano, perché tutto il mondo è Avezzano», mi disse.
Io avevo risposto: «Ok, grazie», fingendo fosse tutto chiaro. Ma non era chiaro nulla.
Afferrai il biglietto e corsi verso il binario 12, giusto in tempo mentre vidi comparire in fondo al salone della stazione quei due pazzi maniaci: Marco e Carla. Erano i miei compagni di stanza in clinica. Eravamo stati dimessi lo stesso giorno e, visto il mio temporaneo vuoto di memoria, si offrirono di ospitarmi a casa loro.
Inizialmente pensavo fosse il pensiero gentile di due miliardari ossessionati dal proprio aspetto fisico, che si facevano criogenizzare per migliorare l’elasticità della pelle. Riuscii a scappare da casa loro giusto in tempo prima che mi amputassero le caviglie per effettuare un auto-trapianto. Dicevano che non ne avevano mai viste di così affusolate.
Quando pensavo di averla scampata, proprio mentre stavo per salire sul treno in partenza, sentii una mano afferrarmi il braccio e tirarmi giù. Era Carla, con quello strano ghigno, mentre mi fissava la caviglia.
«Tutto bene? Ho capito che qualcosa non andava. Avezzano è un mondo pericoloso. Piacere, Anita.»
Così si chiamava la ragazza che mi aveva salvata, tirandomi a bordo.
D’improvviso, dal bagliore dei ghiacci Fiamma si ritrova a guardare gli occhi glauchi di un uomo forte e dai modi gentili, sempre bianco, ma non inespressivo. È Biagio, si è fatto affidare all’unità F100 da oltre 30 cicli e ormai la conosce in ogni dettaglio, sa dei suoi guizzi sottoconsci e delle sue aspettative ipotetiche, ma non le ha mai visto il sorriso, che le scalda il viso nell’uscire dal coma.
«Sei ad Avezzano» – le dice incoraggiante – «lo siamo tutti, in effetti, ovunque, da molti anni.»
Lo stemma ad arrosticino che sostituisce il serpente di Esculapio sta lì a rimarcarlo, ma Fiamma, questo le dicono sia il suo nome, è troppo sconvolta per notarlo. Vuole vedersi allo specchio, non sa cosa abbiano lasciato quei cento anni sul suo volto, ma l’analisi è più che rassicurante: è sempre fresca (come non esserlo!) e liscia, con la pelle di pesca.
«Pesca?», cosa si intende?
Parole e immagini le flashano dietro gli occhi, non riesce a sintonizzarle, così li richiude sconfortata, accasciandosi in pieno corridoio.
La coppia di giovani la sorregge e si informa sul suo stato: un’occhiata complice tra Marco e Carla e una proposta:
«Vuole venire con noi? Possiamo ospitarla», offrono premurosamente.
Ma sono due convertiti, due dannati esigentissimi ortodossi di /aved͡zˈd͡zanə/, da loro si mangia solo /pe’chəre/ e si brinda gridando /iju munne è nodscj-io/, orgogliosi!
Non sa quando, ma al centesimo arrosticino Fiamma ha bisogno d’aria, è fuori prima di pensare e ora corre, verso un Altrove. Non c’è meta su /aved͡zˈd͡zanə/, ma si sa, il cammino si fa andando e lei lo fa correndo, dritta alla stazione, dove sale sull’unico treno disponibile, Il Locale della Marsica, un treno sfavillante, lussuoso, inconcepibile: in realtà è una hall dell’albergo mondo /aved͡zˈd͡zanə nodscji’o/ che non sembra spostarsi, quanto teleportarsi in una delle infinite accezioni della città-pianeta, sottilmente descritte da minime, quanto esiziali, variazioni dialettali.
Fiamma, con baldanza storpia, appositamente la pronuncia allungandone le palatali e indurendo le gutturali /aved͡gˈd͡zagnə/. Un tremore di auree rende palpabile la mutazione: ora l’interno dell’abitacolo è rosa, ma non più vuoto. Una figura slanciata si appalesa sullo sfondo, è ricoperta di piume e due giri di perle le incorniciano i lombi. Guardandola, la bocca di Fiamma non è in grado di chiudersi.
Dopo sei giorni in quella casa, Fiamma non ne poteva più. Per carità, quei due ragazzi erano gentili, ma erano esageratamente gentili in un modo esagerato. Come apriva una porta in casa loro (a proposito, ma quante porte c’erano?) si trovava di fronte Marco o Carla con la frase «Ti serve qualcosa, Fiamma? Chiedi pure!».
Che poi non poteva nemmeno trattarli male. Le erano indispensabili. Muoversi, fare la spesa, andare da qualche parte era diventato impossibile senza l’assistenza di qualcuno. Ma come faceva la gente a sapere dove andare? Tutti i quartieri, le città, tutti i fiumi, i mari e chi più ne ha più ne metta erano “made in AZ”. Il lungomare di Avezzano era diventato di 135630 chilometri (senza contare le province al di là dell’oceano di Avezzano, dove ancora però si faceva fatica a trovare degli arrosticini decenti).
Spesso si domandava se ciò che stesse vivendo fosse realtà o fantasia. Al suo risveglio, la vista degli occhi di Biagio aveva sollevato un peso dalla sua anima. Peccato che lui non solo non l’avesse riconosciuta, ma le avesse dato il benvenuto nel 2125, dove, dopo cento anni di criogenesi, la scienza medica aveva potuto finalmente curarla dalle ferite causate dalla caduta in quel palazzo di Roma (oggi Avezzano). Sulle prime pensò che scherzasse, ma quando lui la salutò ed aprì la finestra del settimo piano per prendere un taxi che lo riportasse a casa, cominciò a rendersi conto che qualcosa nel mondo era decisamente cambiato.
Venti minuti dopo il risveglio, l’avevano dimessa, ma con un vincolo: doveva andare a vivere temporaneamente da Carla e Marco, addetti all’ambientamento da parte del ministero del reinserimento sociale di Avezzano, cosa che la stava portando all’esaurimento. Una volta sgattaiolò fuori, approfittando di un pisolino dei due, ma si perse nei meandri delle 273 metropolitane che collegavano Avezzano. Fu ritrovata da un addetto della fermata di Avezzano, che non ebbe problemi a contattare i suoi due tutori, i quali la riportarono a casa in un battibaleno, visto che dopo due ore di girovagare si era allontanata di soli dieci minuti a piedi.
«Comunque, non ce la facevo più. Gentili o non gentili, la nostra convivenza era destinata a finire. O sarei impazzita.»
«Capisco» – la donna di fronte a lei accavallò le sue gambe sinuose mentre tirava una boccata dal narghilè elettronico offerto dalle ferrovie Marsicane – «e quindi ha pensato di cambiare aria. E dove pensava di andare?»
«Non ne ho idea. Immagino ad Avezzano.»
«Ottima scelta. È stupenda in questa stagione» – si alzò a prendere la valigetta di pelle di pecora mentre il treno rallentava e dai finestrini si scorgevano i cartelli della stazione di Avezzano – «buon proseguimento, allora.»
«A lei» – Fiamma tese la mano per salutarla – «Mi scusi, in tutto questo tempo non le ho nemmeno chiesto come si chiama.»
«Figurati» – la donna le strinse la mano – «Anita. È stato un piacere conoscerti, Fiamma.»
A giudicare dallo sguardo di Biagio quando mi ha “scongelata”, dovrei sembrare una reliquia. Lui giura che Avezzano, in cento anni, ha digerito il pianeta intero: imperi rasi al suolo da rotelle di porchetta e campagne marketing sulla gentilezza abruzzese. Io, intanto, non ricordo neppure il sapore del caffè.
Marco e Carla—ex pazienti, ora proprietari di un loft tappezzato di poster trionfalistici (“AVEZZANO ÜBER ALLES”)—mi hanno accolta con la dedizione di due filantropi e il luccichio famelico dell’archeologo che scopre una mummia ancora calda. Dopo sette giorni di placebo affettivo ho origliato un loro bisbiglio: «Se la registriamo al Ministero dei Primati Storici, ci pagano come sponsor viventi!». È bastato.
Così, all’alba, sono scivolata fuori e ho preso l’unica linea ferroviaria rimasta: Avezzano-Avezzano, un circolo vizioso di binari che non porta da nessuna parte proprio per poter tornare dappertutto. Il controllore, in armatura municipale, mi ha convalidato il biglietto con un timbro che dice “Buona fortuna”.
Nel vagone semivuoto una ragazza, capelli corvino e labbra da scioglilingua, mi ha sorriso con l’aria di chi sa più di quanto dica. «Anita», si è presentata, come se il nome fosse un segreto di Stato. Ha ordinato due lattine di “Gassosa Post-Storica”, poi ha interrogato le mie cicatrici con gli occhi: «Ti fidi di me?». Non ho risposto; il treno ha iniziato a girare su se stesso come una giostra e, per un istante, ho visto fuori dal finestrino l’oceano dove un tempo c’era la Marsica.
Anita ha sussurrato: «La città-Impero non decide chi sei. Se vuoi una storia, scendi con me alla prossima fermata fantasma». Dal soffitto è piovuta polvere di briciole burocratiche; qualcuno nell’altoparlante proclamava il coprifuoco del sorriso obbligatorio. Io, senza memoria ma piena di vertigini, ho pensato che forse la mia libertà abita tra due stazioni che nessuno osa nominare.
Quando le porte si sono aperte, il binario era un campo di erbacce fosforescenti. Anita mi ha preso la mano: «Benvenuta fuori rotta, Fiamma». Ho fatto un passo, poi un altro. Il treno è ripartito senza rumore, lasciandoci in un silenzio che odorava di possibilità bruciate — e di un caffè che, improvvisamente, mi sembrava di ricordare.
Dal laboratorio Scritture Aperte
C’è vita su morte
Questo capitolo fa parte di un’ipotesi di iperromanzo dal titolo provvisorio “C’è vita su morte”, scritta durante il laboratorio Scritture Aperte 2024-25. In ogni incontro viene assegnato ai partecipanti un punto di inizio e un punto di fine e ognuno scrive la propria versione liberamente. Il risultato è un multiverso: ogni capitolo racconta un punto di vista diverso, un universo possibile della storia.
