Trama: Il treno si ferma e scendono. Anita si fa seguire e la porta sul tetto del palazzo da cui Fiamma si è gettata. Le dice di guardare in basso. Si stanno radunando tutti: Biagio, Marco, Carla, i loro figli sognati, i morti ritornati, Biagio l’infermiere, Marco e Carla i pazienti, il sindaco di Avezzano… Dal basso la chiamano.
Fiamma guarda Anita e capisce. Si lancia, di nuovo. Non precipita, ma scopre di poter volare.
Così saluta tutti e si unisce a uno stormo di persone che sta migrando verso sud.
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«Attenzione! Il treno in partenza da Avezzano e diretto ad Avezzano ripartirà tra pochi minuti, eventuali accompagnatori sono pregati di scendere.»
Anita s’infilò di fretta il trench e guardò Fiamma ancora una volta. Le aveva ripetuto «Seguimi» per almeno quattro volte, e non era tipo da accettare un no. C’era qualcosa in quella Anita di eclettico e, a tratti, sensualmente misterioso. Fiamma si sentiva un po’ idiota: insomma, chi era questa che la stava costringendo a scendere alla fermata che voleva lei? Scelse, ad ogni modo, di essere idiota.
«Di qua, facciamo presto», disse Anita, entrando in un vecchio portone di legno chiaro ed elegante.
Nell’androne, un cartello: «Si comunica ai condomini che Paul, il portiere, è assente per un gravissimo lutto. Rientrerà lunedì 5».
Strano.
Piano 1. Il tappeto liso di un appartamento recitava «Stop real life, welcome unicorns». Ancora più strano.
Piano 2. «Dottor Circi – terapeuta disturbi del comportamento e insonnia». Super strano.
Piano 3. «Maga Circe – salute, amore, lavoro – prenota la tua consulenza.» La maga Circe. Fiamma aveva l’impressione di conoscere bene quell’appartamento e di averci lasciato anche parecchi soldi.
Al quarto piano il tappeto era stato tolto e aveva lasciato un alone sul pavimento; il campanello era sprovvisto di nome e la porta era coperta da un manto di polvere.
«Ovviamente l’ascensore c’è», disse Anita.
Piano 5. Anita e Fiamma superarono le ultime scale e Anita inserì la chiave nella piccola porticina che portava al tetto.
Anita era in difficoltà; gli occhi di Fiamma restavano fissi sulla serratura. Poi, con una voce che le sembrò uscire da un dentro ancora più dentro, disse: «Aspetta. La porta è difettosa. Devi prima tirare leggermente in avanti. È un trucchetto che credo di sapere.»
Anita lasciò che fosse Fiamma ad aprire la porta. Davanti a loro si apriva il terrazzo con il tetto ampio.
«Seguimi», continuò Anita.
Fiamma iniziava a innervosirsi. Camminarono fino a sporgersi di sotto.
«Eccoli. Eccoli tutti. Guarda giù.»
Erano tutti lì: Biagio, Marco, Carla, i loro figli sognati, i morti ritornati, Biagio l’infermiere, il sindaco di Avezzano. Fiamma capì. Capì cosa era stata e cosa aveva combinato, capì i treni e i viaggi impossibili. Tutti sussurrarono il nome di Fiamma.
Fiamma guardò Anita.
«Se una cosa la cancelli, quella cosa non esiste», disse Anita.
E capì che questa Anita, chiunque fosse, doveva essere una grandissima stronza. Fiamma si tolse le scarpe, salì sulla ringhiera, guardò giù — che è esattamente la cosa da non fare.
«Se tutto deve ricominciare, che ricominci pure!»
Anita la guardò lanciarsi nel vuoto e, proprio nel momento in cui Fiamma pensava di frantumarsi — e stavolta davvero — ecco che si sollevò in aria. Le uscì una risata isterica e nervosa insieme mentre urlava di sotto:
«Addioooo!»
Dopo pochi minuti, un gruppo di persone, anche loro, volteggiava.
«Scusi, ci siamo persi. Dovevamo andare a sud, ma mi sa che siamo andati troppo in là!»
Anita li guardò, sorrise e disse: «Seguitemi!»
Il treno si ferma, scendono. Fiamma cerca di non perdere di vista Anita tra la gente. È venerdì e tutti prendono il treno a quell’ora per tornare a casa, la stazione è gremita. Per fortuna Anita indossa una giacca rossa: è più facile seguirla.
«Dove andiamo?», le chiede Fiamma, confusa.
La pellicola si riavvolge, salto indietro nel tempo. Le immagini cominciano ripartendo dal tetto del palazzo dov’è iniziata la storia, la caduta nel vuoto di Fiamma. Sale su quel tetto, non c’è puzza di smog a quell’altezza e il cielo è terso. Non sa se guardare in basso, è attratta dal vuoto ma ne ha anche una grande paura. Da lì tutto sembra piccolo e lontano. Forse è lei che è distaccata, lontana: è una sensazione che l’ha accompagnata per tutta la vita.
Sta arrivando gente. «Vengono per me, cosa vorranno?», pensa. È come su un palcoscenico, protagonista di una tragedia greca, ma non vuole un finale tragico e comincia a ridere, ridere. Scene alla moviola, guarda in basso e comincia a mettere lentamente a fuoco le persone. Dalla calvizie riconosce Biagio, che ha interpretato più parti: amato compagno e padre dei suoi figli, infermiere. Marco e Carla, i sognati figli, agitano le braccia, confusi per questa nuova scena non prevista nel copione. Anche il sindaco di Avezzano, la città più internazionale del mondo, è venuto a salutarla come una grande star.
Dal basso la chiamano, lei s’inchina e manda baci. Saluta tutti, consapevole che non li incontrerà più. Lancia sguardi a destra e a sinistra, non sa bene su chi soffermare lo sguardo: «Vi ho amato e vi ho odiato, vi ho incasinato la vita».
Un lungo respiro, guarda in alto. Due sposi e dietro sfila un lungo corteo nuziale di zingari di tutto il mondo. La sposa è avvolta da un lungo velo bianco vaporoso, intorno al suo volto rose profumate. Lo sposo ha un grande cappello a larghe falde, nero. Un garofano rosso appuntato sulla giacca nera, ricamata di rosso. Tutt’intorno tanta musica, una fila di musicisti: violini, tromboni, fisarmoniche. Cantano, ballano. È un giorno di festa e Fiamma, a passo di danza, li segue e vola via con loro.
Fiamma è agitata, continua a guardare fisso Anita. La vede sicura, e questo la tranquillizza. Il treno viaggia da ore, ma Fiamma ha l’impressione di aver percorso pochi chilometri: il Velino è sempre sullo sfondo, con la cima innevata anche se è agosto. Il treno si ferma e le porte si aprono. Anita le fa un cenno, e Fiamma capisce che deve seguirla. Camminano a lungo, si ritrovano sul monte Salviano, proprio lì dove c’era la porta verso il Regno dei Morti. Entrano, e stavolta non ci sono persone morte, solo un mondo morto. Fiamma si guarda e si rivede vestita come quel giorno di tanti anni fa, si guarda le mani e le vede più giovani. Mentre segue Anita rivede le facce che aveva incontrato quel giorno, che riconoscerebbe anche se fossero passati mille anni. Comincia a sentire l’ansia di allora. Segue Anita, anche se conosce bene la strada. Scalino dopo scalino si ritrova sul tetto del palazzo di tantissimi anni prima, con la possibilità che non tocca a nessuno: rigiocare una mossa nella vita.
Anita le dice «Guarda giù», e ora vede una grande differenza con tanti anni fa: è pieno di persone. Se allora non era morta perché nessuno l’aveva vista, cosa succederà ora?
Anita la vede pensierosa e le dice «Guarda meglio». Così vede sfilare i volti di tutti i capitoli della sua vita dopo quel salto, uno dopo l’altro. Ci sono Biagio, Marco e Carla, la sua «famiglia». Ci sono Biagio, Marco e Carla, incontrati al risveglio in ospedale. Vede Mario Spallone, il sindaco. Poi i morti, tanti morti. In basso, la incitano. Guarda Anita, che le fa un cenno. Fiamma ha una paura fottuta del vuoto, ma il vuoto in cui si è ritrovata dopo il coma le sembra peggio di quello che deve affrontare cadendo. Fa cinque passi indietro, prende un grande respiro, e si lancia con tutta la forza che ha. Comincia a contare: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette… Sette è troppo, dovrebbe già aver sentito il botto. Schiude un occhio, e vede che lo slancio l’ha portata lontano, ma sta andando verso l’alto invece che verso il basso. Si spaventa, cambia posizione, e inizia a precipitare. Urla, tende il braccio in avanti, e ricomincia a volare, ma poi cade di nuovo. Sente «Ciao». Si gira e si ritrova accanto un bambino che le sorride. «Guarda, si fa così», e le mostra come controllare il corpo mentre è in aria. Fiamma inizia a volteggiare, è contenta di non ritrovarsi tra tutti quei fantasmi del suo passato incomprensibile. Vede più lontano altre persone che volano come lei, e le raggiunge. «Chi siamo? Perché voliamo?» — «Siamo la resistenza allo strapotere di Avezzano. Anita è una nostra agente, e ti ha portato qui perché tu ti unissi a noi. C’è un punto a sud che è l’ultimo baluardo che resiste a Avezzano, dobbiamo arrivare lì e unirci a loro. Solo così in questo mondo si potrà vivere in un posto caldo in riva al mare.» Fiamma capisce di essere nel posto giusto, e di aver trovato ciò per cui vale la pena lottare.
Prima di andare ripensa a Biagio, Marco e Carla, e a come era stata felice con loro. Scende giù in picchiata, li abbraccia commossa, e vola via.
Il treno si fermò otto minuti dopo.
Fiamma scese e subito qualcosa parve strano, perché si ritrovò in mezzo a un corridoio.
Anita stava in fondo, sulla porta, ad aspettare.
La raggiunse molto piano.
Scorrevano, sui lati, le stanze ricolme delle assenze che lei già conosceva.
Quelle di lei sposa, di lei madre. Quella dei bambini, con i giochi alla rinfusa e il profumo di settembre con i suoi libri nuovi.
E poi, di nuovo, l’odore del gas dalla cucina.
Anita fece un cenno e Fiamma, questa volta provò a non respirare.
Si incontrarono di nuovo sulle scale.
Salirono sul tetto.
Sotto, c’era Biagio che non aveva mai incontrato, i figli che aveva immaginato, un infermiere un po’ scontroso, gli strani carcerieri ed i morti di tanto tempo fa.
La chiamavano a gran voce.
Anita guardò Fiamma, che capì.
E allora si lanciò, ed imparò a volare.
Attese gli altri, che arrivavano da Nord.
Un saluto, e se ne andò.
Quando il treno si fermò, Anita prese con forza la mano della sorella per condurla lungo una strada già percorsa verso il palazzo dal quale si era gettata. Una volta sul tetto, Anita con coraggio le disse di guardare in basso. Fiamma aveva paura, una strana vertigine e un nodo in gola, ma poco alla volta trovò il modo di sporgersi in avanti. Durò un solo attimo, poi si ritrasse. Anita la spronò ancora: «Avanti, sono tutti qui per te» e, tenendole ancora la mano, la spinse di nuovo.
Fiamma lanciò quasi un urlo: «Non posso». La mano le sudava moltissimo.
«Forza Fiamma, sei arrivata fino a qui, non puoi mollare proprio adesso. Molla solo la mia mano».
Fiamma respirò profondamente: «Ok», e lasciando lentamente la mano di Anita si sporse ancora un po’.
L’altezza di quel palazzo era considerevole, non se lo ricordava. Il primo che notò da lì fu Biagio, il suo amore segreto e profondo, poi riconobbe accanto a lui Marco e Carla, i figli sognati con lui. Vide di colpo Freud, Lynch, Platone, tutti i morti che erano stati a lungo nella caverna. Dall’altro lato vide l’altro Biagio, l’infermiere, i due fratelli che avevano condiviso la camera di ospedale con lei per cento lunghissimi anni. C’erano perfino il sindaco di Avezzano, la banda del paese con mille musicisti per ogni strumento, provenienti da tutto il… Avezzano, i fiori di Avezzano, i bimbi di Avezzano, le vecchie, i postini, i maestri, i dottori, gli artisti. C’era perfino lui, il suo grande amico Tom, il peluche con cui giocava quando era piccola.
«Forza, Fiamma, buttati!», urlavano dalla piazza.
Lei non capiva.
«Dai, buttati!»
«Fiamma, siamo qui per te, avanti!»
Fiamma guardò Anita, che annuì. Lei guardò di nuovo in basso, verso Biagio.
«Fiamma, lascia perdere quello che è stato, devi procedere»
«Che ne sarà di noi?» chiese Fiamma alla sorella.
«Andrà tutto bene, saremo felici, saremo pronti».
«Anita?»
«Sì?»
«Promettimi che questa volta non sarà come l’ultima».
«Fiamma, te lo giuro, adesso è diverso da prima».
Fiamma guardò di nuovo Anita, un’ultima volta. E capì. Alzò un piede dalle tegole e provò a saltare. Appena lasciò il tetto sentì il cuore in gola per la paura, ma anche una sicurezza dentro le spalle. Tutti la guardavano col naso all’insù, ognuno sventolando qualcosa. Per non cadere sulle teste degli spettatori, Fiamma fece un’impennata verso l’alto ed urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Volò in mezzo agli alberi, tra le case della gente, insieme agli uccelli del cielo. Si buttò tra le nuvole e poi di nuovo sopra i tetti. All’improvviso vide uno stormo di persone. Solo lei poteva vederlo. Loro le sorridevano, lei era al settimo, forse nono cielo adesso. Si guardò dietro un attimo, gli altri erano ancora tutti laggiù, ad esultare per lei. Lasciò il gruppo un attimo, giusto il tempo di dare ancora un ultimo bacio a Biagio e Anita. Poi, con un grande battito di braccia, si alzò in volo e, unendosi al gruppo, si diresse verso sud. Finalmente in pace.
Erano state comunicazioni assertive, quelle tra Anita e Fiamma. Su quei vagoni pieni di incertezze, tutto assunse una veste precisa, come dipinta. Anita preannunciò a Fiamma che l’avrebbe aiutata a capire, una volta arrivate. Improvvisamente, il treno si fermò. Fiamma si irrigidì, mentre camminava a passo veloce verso quelli che sembravano ricordi. Ma lo erano? Forse era come in quei sogni, quelli così realistici da farti domandare se tutto è accaduto davvero oppure è il solo frutto della fantasia. Non c’era dubbio, Fiamma riconobbe la signora del bar sotto il palazzo, l’odore di sigaretta che proveniva dai posaceneri stracolmi, l’androne del palazzo, la scalinata di marmo scivoloso ed un disegno attaccato sulla porta dell’ultimo appartamento prima del tetto. Anita l’aveva portata proprio lì, dove tutto era iniziato o dove tutto era finito. Delle voci cominciarono ad echeggiare nella testa di Fiamma, come un fastidioso orologio a cucù. Le gambe le cedettero, mentre si teneva con la mano destra ben salda al corrimano dell’ultimo scalino. Sudava freddo, un brivido le attraversò il corpo fin dentro il naso che le si ghiacciò come quando mangi il gelato troppo velocemente. Perché quella donna era così crudele, perché voleva far rivivere a Fiamma quella sensazione di terrore? Anita le poggiò amorevolmente una mano sulla spalla e la esortò a guardare in basso. «Non aver paura, nulla è come sembra. Vai.»
Fiamma non sapeva perché, ma aveva fiducia in Anita. Ed anche in quel momento difficile si affidò alle sue parole. Tremolante e guardinga, si avvicinò al parapetto del tetto e con il collo teso guardò in basso; era sempre impaurita dalla morte ma il fascino aveva la meglio. Ad aspettare non c’era la morte, però, non solo quella per lo meno, ma c’era lo sguardo di Biagio, Carla, Marco, i figli sognati, i morti ritornati, Biagio l’infermiere, Marco e Carla pazienti, il Sindaco di Avezzano e la signora del bar. C’erano tutti quelli che l’avevano fatta sentire viva dopo il lancio. La sua vecchia vita, la sua non-vita ed il suo inconscio erano lì ad attenderla, come a dire «Torna da noi, perché ci hai lasciati?».
Per Fiamma ognuno di loro rappresentava una paura, un trauma, un argomento intrattabile. Erano tutti lì racchiusi in corpi umani ma in loro riusciva ad identificare solo problemi. Occorreva una gran forza per riuscire ad andare oltre, tanta volontà per sorvolare. Fiamma si voltò velocemente e guardò la fidata Anita, in cerca di approvazione. Ci vollero solo tredici secondi esatti per decidere di buttarsi di nuovo: una seconda morte fisica ed interiore le apparve l’unica soluzione.
Mentre cadeva nel vuoto, Fiamma sentì una forte energia sprigionarsi dalle mani, che di colpo divennero palmate. L’addome si irrigidì come sospeso, spalle e braccia si aprirono, le cosce si strinsero lunghe e dal naso uscirono farfalle verdi. Fiamma stava volando. Quel secondo tuffo nel vuoto era stato diverso, perché lei era diversa. Le esperienze l’avevano cambiata profondamente, fino a farle credere di poter fare tutto ciò che voleva. E, in effetti, stava proprio funzionando. Tutti la guardarono allibiti, non potevano credere che la consapevolezza l’avesse portata fin lassù, leggera nel cielo. Mentre volava tra le nuvole Fiamma assaporava la libertà, concedendosi. Non era sola, altre ed altri come lei le planavano intorno, felici della ritrovata serenità. Fiamma sorrideva a tutti, in alto ed in basso, salutava con la tranquillità di chi lasciava andare qualcosa, con la serenità di trovare qualcos’altro. Forse lo avrebbe trovato migrando a Sud.
L’altoparlante aveva un volume talmente alto che fece sobbalzare Fiamma all’annuncio che la prossima fermata sarebbe stata la sua.
Stava sognando l’origine di tutte le cose, quantomeno delle sue: una sorella, l’antica Avezzano… tutto cancellato dai decibel di quella voce metallica.
Quando la foschia del risveglio lasciò i suoi occhi, di fronte a lei c’era la stessa donna del sogno, che si preparava a scendere. Fiamma si alzò dal sedile in silenzio e la fissò. La donna, senza apparentemente accorgersi di nulla, si avviò davanti alle porte del treno. Quando arrivò il momento di scendere, lo fece.
Fiamma la tallonava, come se dentro quella schiena ci fossero tutti i tasselli di un puzzle che stava cercando di rimettere insieme per capire come era arrivata fino a lì.
Scendendo dal treno, sul cartello blu della stazione lesse AVEZZANO OVEST – ROMA.
Non erano quelle sognate le strade che stava percorrendo, seguendo in silenzio la donna del treno, eppure c’era qualcosa in quei palazzi, in quei vicoli lastricati di sanpietrini sconnessi, in quei nasoni che sputavano acqua continuamente, che le risultò familiare.
Svariati passi dopo la donna si girò, sotto un brutto palazzo di sette piani. Si accese una sigaretta e, guardandola, parlò.
«Bentornata a casa sorellona!».
Le orecchie di Fiamma non lasciarono cadere nel vuoto neanche una delle parole che la sorella pronunciò nelle tre ore in cui le raccontò quei cento anni che aveva trascorso sognando in un letto d’ospedale: la rivolta di Avezzano, la nascita dell’impero mondiale, la sua lunga attesa per riabbracciarla e salutarla di nuovo, ancora viva.
Il vuoto che Fiamma aveva nel cuore si riempì di tutte quelle parole al punto che le sembrò di ricordare ogni cosa.
«Adesso saliamo, dobbiamo tornare su perché tu possa ricordare davvero!», le disse.
Si alzò la polvere quando Anita spalancò la porta d’ingresso, segno che quel luogo era rimasto immacolato per tutto quel tempo. I loro piedi lasciarono impronte come si lasciano nella sabbia. Una volta sul balcone, Anita si sporse a guardare giù.
Fiamma era impietrita, due passi dietro di lei. Avvertiva un brusìo che sembrava di insetti.
«Guarda», le disse amorevolmente la sorella, «sono tutti qui per te, perché finalmente, tu possa andare oltre».
Il calore della mano di sua sorella, che la accompagnava al parapetto, le infuse il coraggio per guardare.
La folla di anime, reali e non, che le avevano fatto compagnia in quei cento anni di oblio era tutta lì, con i volti rivolti verso l’alto a guardare lei, a urlare il suo nome.
Riconobbe gli occhi di Biagio, le voci di Carla e Marco, la sua famiglia inesistente e le loro versioni reali.
Vide Shakespeare, Napoleone ed Einstein e si ricordò dell’indifferenza subita che la spinse a saltare giù per cadere, come faceva la pioggia quella sera di un secolo fa.
«Il tempo si cancella quando precipiti», disse Anita.
E lei capì.
Quando si lanciò di nuovo dal cornicione non c’era paura.
Cadendo, scoprì che sapeva volare. Si sentì un’aquila e puntò dritta a sud.
La folla di sotto si alzò in volo e la seguì.
Fiamma seguiva Anita senza staccare l’occhio dal suo tatuaggio. L’uno romano. Una linea elegante, nera, dall’attaccatura dei capelli fino all’osso della cervicale. Il collo di Anita era diventato il suo paesaggio, e Fiamma si perdeva nelle memorie di cose forse mai accadute.
D’improvviso i pantaloni blu di Anita smisero di muoversi e lei si voltò di colpo, trovando gli occhi di Fiamma all’altezza dei suoi. Intorno a loro le persone andavano e venivano, variopinte e distratte. Un uomo dalla faccia rude sbatté addosso a Fiamma e le chiese scusa con una voce ormai distante di qualche passo.
«Cosa stiamo facendo?», domandò Fiamma con un movimento impercettibile della testa.
«Fiamma…»
Il tono di Anita non tradiva alcunché. Fiamma. Era davvero il suo nome? Ora le suonava naturale, pronunciato da quella donna sconosciuta, eppure così legata a lei.
«Chi sei? Ci conoscevamo prima?»
Come poteva spiegarglielo? Aveva vissuto tante volte quel momento, in modi diversi, e quella fiducia cieca si riproponeva, stanca come le cose inesorabili.
«Ascolta, Fiamma, non abbiamo tempo: capirai tutto al momento giusto.»
«Io conosco quel tatuaggio, Anita. Perché?»
Anita si avvicinò a Fiamma e le toccò il collo.
«Perché è il tuo», le sussurrò. «Ora vieni.»
Anita riprese il passo lasciando indietro la piazza principale di Avezzano e Fiamma, che era rimasta ferma per qualche secondo, era poi scattata, le aveva preso il braccio e le aveva chiesto di non mollarla mai.
Arrivate davanti a una palazzina di nove piani, le due spinsero il portone e iniziarono a salire.
«L’ascensore è rotto», disse Anita.
Fiamma abbassò gli occhi. Per nove piani si sentiva solo il rumore del loro fiato, intercalato a quello dei passi sulle scale. Anita arrivò per prima, aprì la porta che dava sul terrazzo condominiale, dove tirava un vento scostante, e fece passare Fiamma.
«Cammina fino al bordo. Ti guiderò da giù.»
Fiamma fece giusto in tempo a vedere i pantaloni blu scomparire dietro la porta antincendio. Davanti a sé il tramonto segnava la fine di un inverno che, stando alle cronache, era stato abbastanza blando. Sul fondo si scorgevano i monti ancora innevati. Non c’era più paura. C’era solo il vento, che Fiamma attraversò per arrivare sul parapetto del terrazzo dove, con il peso del suo corpo, aveva deciso di piantarsi. In attesa.
Quando sentì il primo richiamo, capì che lo attendeva da tanto. Non fu rammaricata, né compiaciuta. Era soltanto arrivata l’ora. Guardando in basso, la prima persona che vide fu Anita, progressivamente circondata, come in una melodia, dalla fiumara di anime che avevano condiviso con Fiamma la propria vita, per una frazione di desiderio, di tempo, di spazio. L’amore maturo. La sua impronta nel mondo. I compagni di paura. Cura. Malattia. Morte. Rinascita. Tutti lì, immischiati e disordinati come la vita pensò lei, quasi in un sorriso, prima di capire il gesto di Anita.
Poi aprì le braccia (le sembrò una scena cinematograficamente meritevole) e spiccò il volo, salutando i corpi sempre più piccoli, per unirsi allo stormo che migrava verso sud.
Anita si era fatta silenziosa e non c’era verso di scucirle altre parole: a malapena rispondeva alle domande di Fiamma, soltanto rianimandosi alla fermata del treno per invitarla a scendere.
Ora era Fiamma a bloccarsi, cercò di trattare. Tutto questo mistero per tre fermate di treno? Anita, irrequieta, mentre il treno ripartiva cominciò a urlare che non avrebbe perso altri centoventotto anni per lei, che doveva sbrigarsi se voleva un futuro. E un passato.
Adesso Fiamma la seguiva muta, arrabbiata; solo quando entrarono nel palazzo Anita sorrise e gentilmente la tenne per mano. Il rumore interminabile dell’ascensore, lento, per diversi piani, poi il vento fresco di fine estate la fece rabbrividire e finalmente il gioco a mosca cieca ebbe fine. Anita la guardò, serena, e disse soltanto: «Guarda giù».
Biagio era già lì che la osservava sognante: la chiamava, la invitava a scendere anche con i gesti, le chiedeva se voleva che andasse a prenderla, sorrideva e la chiamava ancora più forte: «Dai, ricominciamo tutto di nuovo!». Ma le sue parole si confondevano con il vociare di due giovani. Marco discuteva animato con Biagio, l’infermiere, sul rigore che aveva fatto vincere lo scudetto ad Avezzano 4 contro Avezzano 7; Biagio insisteva che era fuorigioco. Smisero solo quando erano vicini a Biagio e alzarono la testa per cercarla con lo sguardo.
«Ma sei ancora lì?», gridò Marco. «Dai che ce ne andiamo, scendi, abbiamo un sacco da fare!»
Carla si unì a loro; con in mano il violino che non mollava mai. Non la guardò subito: rimproverò il fratello di essere sempre il solito fricchettone sguaiato e lo invitò a calmarsi. Poi alzò lo sguardo e la cercò; come non trovarla subito, con quella nuvola rossa di capelli che il vento strapazzava? La chiamò dolcemente, ma le sue parole non arrivarono distinte perché un altro gruppetto si avvicinò chiedendo: «Dov’è? Dov’è? Vogliamo vederla anche noi! A destra… No, ma che fate? Aspettatemi!».
Un forte rumore di clacson zittì tutti. Dalla lussuosa macchina scese il Sindaco che, con un microfono, la salutò: «Signora Fiamma, le do il benvenuto ad Avezzano. Lei è il nostro esperimento meglio riuscito e tutti attendevamo questo giorno, in cui i nostri scienziati avranno la possibilità di far brillare ancora Avezzano per i suoi importanti progressi in campo scientifico».
Solo allora Fiamma si sentì osservata da Anita. La guardò e capì. Tornare con quel violino stridulo tutto il giorno, ricominciare con Biagio, sopportare le partite di Marco, il Sindaco petulante? No: meglio farla finita una volta per tutte. E si lanciò nel vuoto.
Non chiuse gli occhi, per godersi lo spettacolo di tutte quelle facce. Ma scoprì di volare, e allora sentì ancora più urgente la voglia di fuggire da quel gruppo di matti. Cos’è quella macchia nera? Ma anche loro volano? «E dove andate?», chiese con la mente. Sempre con la mente quelli risposero: «A suuuud». Sempre meglio di qua. Salutando tutti a terra, soddisfatta, si avviò con loro, godendosi le facce attonite e stranite di tutti, Anita compresa.
«Stazione di arrivo: Avezzano. Il treno viaggia con 50 minuti di ritardo.»
Sento qualcosa di familiare in quell’annuncio e uno strano piacere rassicurante.
Anita mi fa cenno che possiamo scendere dal treno. Decido di seguirla. Ragiono sul fatto che nella mia vita ho seguito persone peggiori e molto meno raccomandabili di questa sconosciuta che mi aveva appena salvato le caviglie dall’amputazione da parte di due psicopatici. Tanto più che, durante il viaggio in treno, per la prima volta ero riuscita a dimenticare l’angoscia di essermi risvegliata in un mondo che non riconoscevo più. Soprattutto grazie alle parole e agli sguardi così familiari di Anita, che sembrava conoscermi molto bene.
Scese dal treno cominciamo a camminare, apparentemente senza meta, in un’Avezzano sempre uguale ad Avezzano senza essere Avezzano. In silenzio, perché improvvisamente Anita aveva smesso di parlare. Provata qualche frase di circostanza, chiedo spiegazioni, ma non ricevo risposta. Ecco, penso, ho fatto la cazzata. Sarà una trappola. Magari è d’accordo con gli psicopatici e addio caviglie.
«Siamo arrivati», esclama dal nulla Anita, mentre nella mia testa stavo ragionando se prima di mettermi a correre fosse abbastanza saggio darle o no un colpo sulla nuca per guadagnare qualche metro di vantaggio.
È difficile spiegare l’emozione quando, per la prima volta dal mio risveglio, guardando l’entrata di quel palazzo, mi rendo conto che un piccolissimo ricordo stava riaffiorando alla mente. Il ricordo di una vita vissuta. E arrivate sul tetto del palazzo, quella sensazione diventa ancora più forte.
«L’anagrafe», dico ad Anita, girandomi verso di lei per osservarne attentamente la reazione.
Non muove un muscolo, invitandomi a guardare di sotto. Con il naso all’insù, a fissarmi dal marciapiede, ci sono tante persone, tutte le persone. Quelle che in un modo o nell’altro avevano fatto parte della mia vita. Il maledetto Biagio con la biondina dell’Ipercarni, Napoleone, zia Antonietta di 165 anni.
Ma di quale vita? Questa è la grande domanda. In una vita sono sicura che lanciarmi nel vuoto era un metodo funzionante per avere le risposte che cercavo, in particolare da quel palazzo avevo provato a capire se fosse il caso o no di cambiare il mio nome, che trovavo orrendo.
Anita, leggendomi nel pensiero e annuendo con la testa, mi conferma che è quella la cosa giusta da fare. Lanciarmi nel vuoto e trovare la risposta che cercavo, e forse riappacificarmi con quel nuovo mondo in cui mi ero svegliata.
Così faccio, piena di speranza ed emozione, perché mi sento finalmente vicina alla liberazione. Per uno strano scherzo del destino, sotto lo sguardo incredulo anche di Anita e di tutti i presenti in strada, non tocco l’asfalto e non ho nessuna risposta alle domande che cercavo. Anzi, se ne aggiunge una. Perché adesso volo?
Anzi, due: ora dove me ne vado volando?
«Noi andiamo a sud», mi dice un tipo strano alla guida di un gruppetto di persone volanti, percependo il mio smarrimento.
«Che c’è a sud? Avezzano?», chiedo rassegnata.
«No, a sud non c’è niente.»
«Bellissimo. Ho proprio bisogno di quello.»
A un suo cenno il treno si ferma. Anita scende e Fiamma la segue incerta sulla massicciata, che lei al contrario percorre con l’eleganza di una mannequin, le piume vibranti all’aria e le perle brillanti nella notte. Percorrono un sentiero tra scarti industriali e retri di magazzini, che d’improvviso sbocca su una piazza conosciuta. Inizia una lenta ascesa su per antiche scale, la struttura dell’edificio è cangiante, Fiamma rivede i colori della casa dei suoi, poi un androne che ricorda la sua scuola, salgono per gradini consunti fino a ritrovarsi nei locali delle fontane, gli antichi stenditoi di un palazzo… no, del palazzo! Fiamma ora sa già cosa sta per apparirle davanti: la terrazza, la balaustra malferma. È da lì che si è gettata.
La voce calda di Anita la invita: «Guarda in basso». Una piccola folla si sta radunando sotto la luce incerta dei lampioni, che più che illuminare inchiostrano alla Breccia i convenuti. Non è un problema, anche nel buio Fiamma li riconosce, a uno a uno. Ci sono tutti: Biagio, Marco, Carla, i loro figli sognati, Biagio l’infermiere, Marco e Carla i pazienti, anche il sindaco di Avezzano, l’unico a cui Anita lancia un saluto. E non sono soli: un’oscurità più densa, fuori dalla luce dei lampioni, rivela la massa dei morti ritornati.
Fiamma trasalisce, tutta la sua vita è riunita in quella piazza; se la vede offerta davanti agli occhi come le immagini che scorrono in tumulto nella mente di un condannato. Si volta a guardare Anita, che ricambia lo sguardo serena; ripensa a Borges, al Miracolo segreto, capisce che deve sistemare tutto prima di lasciarsi andare al proprio destino. Ma tutto è proprio come deve essere, ogni cosa è compiuta, nulla la trattiene. Si lancia, di nuovo, con un grido acuto di rondine, mentre l’aria la circonda veloce, arruffandola e scompigliandole i capelli.
Non c’è limite ai casi in cui l’essere umano può lasciarsi andare a digressioni scientifiche: lanciata nel vuoto, Fiamma si trova a elencare le differenze con la volta precedente, un po’ come farebbe un sommelier degustando annate dello stesso vino. E ce ne sono, perbacco! Tutto è in movimento, è vero, ma non precipita, anzi quando ha mosso un braccio il suo corpo ha preso a virare, chiude le braccia e con un tuffo al cuore scende in picchiata. Fiamma non sta precipitando. Vola!
Un riso le sgorga dal cuore, si slancia in evoluzioni arditissime, picchia e cabra sfiorando il palazzo e scendendo radente agli astanti, sui cui volti legge sorpresa e sollievo, il segno di una prova superata, la ritrovata fiducia sul possibile destino del mondo. Fiamma volteggia sul gruppo in cerchi rapidi, avendo cura di cogliere e di lasciare a ognuno almeno uno sguardo. Con un leggero colpo di reni si innalza nel primo lucore dell’alba. Scorge da est uno stormo di persone volteggianti come lei, stanno virando verso sinistra, li raggiunge, inizia il viaggio verso sud.
Il treno, in prossimità dei binari di Avezzano, rallenta fischiando. Prosegue la sua corsa fino alla fine di un cavalcavia e poi nel vuoto, senza accennare a cadere. Seguendo le indicazioni di un capotreno appollaiato sopra una piattaforma volante, curva leggermente a destra, in direzione di alcuni palazzi dall’aria familiare.
«Ma… Siamo a Roma?»
Anita sorride appena, mentre il treno rallenta ancora, fermandosi all’altezza del terrazzo di un palazzo che in cento anni non è cambiato poi un granché, eccezion fatta per le antenne del 64 G in un angolo.
«Perché siamo qui?», chiede Fiamma con un filo d’ansia, mentre Anita le porge la mano per aiutarla a scendere.
«Per un finale, Fiamma. Il tuo.»
«Oddio. Ma intendi un finale dickensiano dove cambio vita, conosco un uomo, ci faccio tre figli e il ricordo di quello che è successo pian piano svanisce, o qualcosa di tragico dove in realtà siamo morti in un incidente e tutto questo è un parto della mia mente prima che si spenga per sempre?»
«Fiamma, ognuno di noi scrive la sua storia, almeno in parte», fa Anita, lanciando una monetina e fermandola sul dorso della sua mano, tenendola coperta. «Pensi di essere unica, come ognuno di noi. Ma non è esattamente così.»
Scopre la moneta, e la faccia che si vede è un ritratto di Fiamma.
«Sono io?»
«Sei una te. Ma non la sola.» Gira la moneta e anche l’altra faccia mostra un ritratto di Fiamma.
«Non capisco.»
«Guarda in basso.»
Fiamma si aggrappa al cornicione, cercando di mettere a fuoco quello che vede. Ci sono tante persone in strada. Ma in mezzo a tanti volti sconosciuti, alcuni le sono familiari. Ci sono personaggi che sembrano usciti dai libri di storia, ma non solo. C’è Biagio, da una parte. E poi vede Marco e Carla, i loro figli. Ci sono le autorità e la filarmonica di Avezzano al gran completo. Tutti guardano su, chiamandola per nome, formando come un magma sonoro.
Fiamma si tira indietro di scatto, la testa le gira. Si volta per cercare risposte, ma si trova a fissare negli occhi la sua faccia. Dietro di lei, un’altra Fiamma, un’altra ed un’altra ancora. Decine di volti con la sua stessa confusione negli occhi.
«Vedi, Fiamma», la mano di Anita si appoggia sulla sua spalla, «qualunque sia la scelta che hai fatto, in ogni storia, in ogni universo, tutto converge qui. Sempre. Tutte voi tornate allo stesso punto. Qui.»
«Verso il finale?»
«Verso il finale.»
Una Fiamma le si avvicina. Lentamente, i loro palmi si toccano. Poi le forme si fondono, per diventare una sola persona. Pian piano tutte si fondono, finché rimane una sola Fiamma, che si volta verso il parapetto e lo scavalca di nuovo.
Ma stavolta, non cade. Il suo nome, scandito da tutte quelle persone che hanno attraversato le sue esistenze, la sostiene come una corrente ascensionale che lei cavalca semplicemente allargando le braccia.
Aprendo lo sguardo, vede dei puntini che volteggiano in lontananza e decide di volare verso di loro. Così i puntini diventano sagome, e poi figure umane che cavalcano altri nomi, altre storie, altri destini che li hanno portati lì, in quel cielo, volando insieme a lei in quel finale, tra tanti altri finali. Verso sud.
Il treno si ferma con un singhiozzo di freni, eppure nessuno dei passeggeri sembra sorpreso di trovarsi sul tetto di un palazzo. È lo stesso edificio dal quale, anni prima, Fiamma è scivolata nel vuoto. Le due donne scendono, il treno riparte.
La ghiaia del tetto scricchiola sotto le scarpe di Anita. Fiamma la segue, addosso ancora l’eco del freno del treno. L’aria qui sopra è lamiera calda, odora di fulmini non esplosi. Anita non dice nulla. Indica il bordo.
In basso la piazza si sta saturando di figure. Biagio due volte: quello che rideva in corsia, quello che tossiva d’inverno. Marco con la giacca da visita e Marco con la flebo. Carla con la cicatrice e Carla bambina che regge un aquilone di plastica. Il sindaco di Avezzano tiene un megafono spento. Perfino i sogni scendono dal marciapiede: bambini con capelli di gesso, fantasmi che ancora non sanno di esserlo. Dal regno dei morti, i defunti sono risaliti silenziosi e aspettano.
Tutti guardano verso il tetto, e quando pronunciano «Fiamma», l’aria vibra.
Fiamma si sente tirare verso il niente che ha già attraversato. Sente la domanda, non le serve la voce per rispondere.
Si gira verso Anita. Gli occhi dell’altra sono accesi e chiari. Fiamma annuisce. Anita sfiora la spalla di Fiamma, poi si ritrae. «Vai», sembra pronunciare senza rumore.
La gravità dura lo spazio di quattro piani; poi le scapole si aprono, non come ali, ma come idee che rifiutano di finire. Il vento non la sostiene: la riconosce. Il corpo non precipita più, scivola orizzontale. Sorvola i radunati, li sfiora con l’ombra. Biagio sorride, Biagio è stupito, Marco abbraccia Carla, i bambini ridono senza suono. Fiamma saluta con la mano, ed è un addio leggero.
Più in alto, uno stormo umano taglia il cielo: sagome che puntano a sud, forse a cercare un inverno più mite. Fiamma aggiusta la rotta, entra nella corrente, trova il posto che le spetta fra dorsali e respiri sconosciuti. L’orizzonte si distende; non è promessa né minaccia, solo distanza da coprire.
Quando l’ultima luce del tetto scompare, lei sa di non appartenere più a nessuna delle versioni lasciate a terra. È un pensiero rapido, inciso nell’aria. Poi cede al ritmo collettivo, e il cielo le scorre intorno.
Nell’aria nessun corpo pesa abbastanza da chiamarsi vivo o morto. C’è solo un codice che continua a riscriversi.
Indice:
1. Fiamma nel vuoto
2. Nei sogni degli altri
3. Il Regno dei Morti
4. Il Carnevale di Dio
5. Coma. Un fulmine a ciel sereno.
6. Questione di vita o di porte
7. Tutto il mondo è Avezzano
8. Chi è troppo vola e nulla stringe
Dal laboratorio Scritture Aperte
C’è vita su morte
Questo capitolo fa parte di un’ipotesi di iperromanzo dal titolo provvisorio “C’è vita su morte”, scritta durante il laboratorio Scritture Aperte 2024-25. In ogni incontro viene assegnato ai partecipanti un punto di inizio e un punto di fine e ognuno scrive la propria versione liberamente. Il risultato è un multiverso: ogni capitolo racconta un punto di vista diverso, un universo possibile della storia.
