Trama: Fiamma precipita da un palazzo e muore. Nessuno se ne accorge, così torna a casa con una nuova consapevolezza: da quando è morta vuole vivere appieno la vita.
Sei anni dopo ha conosciuto Biagio e si è innamorata. Prima che la relazione diventi seria gli racconta cos’è veramente la sua vita, ormai da tempo fuori da ogni legge umana. Ma non gli dice di essere morta.
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Non sapevo cosa fosse successo, tutto mi appariva confuso. Dov’ero? chi ero? Un’esplosione di luce improvvisa, intensa. Tutt’intorno buio. Non sapevo dove andare, la strada era bagnata, iniziò a piovere. Mi rifugiai in un bar, dentro la gente rideva, in uno specchio vidi la mia immagine riflessa: “ma sono proprio io?”. Una luce mi avvolgeva, cominciai a muovere il mio corpo, mi sentivo sempre più leggera. In sottofondo una musica jazz, cominciai a ballare. Chi ero? Avevo voglia di allentare la tensione dei muscoli indolenziti, scrollai la mia lunga chioma riccia e chiesi da bere. Io, che non bevevo mai. Attirai l’interesse di alcuni giovani, cominciammo a parlare, a cantare. Quando fu notte fonda il gestore del bar ci cacciò fuori. Mi ritrovai sola per strada, non accusavo stanchezza ma solo tanta voglia di scoprire cosa mi stesse succedendo. Volevo giocare, ridere, correre, tutto mi sembrava leggero e armonioso.
Fermai un ragazzo, non sapevo dove andare. “Per qualche giorno ti posso ospitare”, mi disse. Furono giorni splendidi, mi raccontò dei suoi viaggi in Giappone e avrei voluto andarci anch’io. Cosa aspettavo? Tutto mi sembrava così chiaro. Sembrava che nessuno mi vedesse, sceglievo io chi incontrare, da chi farmi vedere. Presi un aereo per Tokyo e poi Kyoto. Lì mi si aprì un mondo. Era tarda primavera, l’inizio della fioritura dei ciliegi, per la strada ragazze col kimono ridevano complici. Conobbi così Mitsuko, che mi avviò alla conoscenza dell’arte delle Geishe. Dico “arte”: imparai a suonare a cantare, intrattenere uomini che volevano soltanto dimenticare… anch’io avevo dimenticato. Così cominciai a intuire cosa mi dava piacere e come dar piacere. Un gioco intrigante, fatto di sguardi, di piccoli gesti, d’intuizioni. Potevo esprimermi in tanti modi. Inventavo e raccontavo storie in un paese sconosciuto. Ero rossa, riccia, alta, niente a che vedere con i canoni giapponesi. Ma la mia voce incantava, riuscendo a far piangere e a ridere, toccando le emozioni più profonde. Osservavo la mia trasformazione. Passarono sei anni. Una notta feci un sogno. Mia sorella Anita era stata colpita da qualcosa, mi chiamava. Il sogno mi scosse a tal punto che decisi di tornare a Roma. Mi precipitai nella casa paterna e i miei genitori stavano discutendo animatamente. “Ma ti pare che non ci possano essere rimedi, si cerca la vita su Marte, e non si può trovare un antidoto al mal di nostalgia?”, diceva mio padre, mentre mia madre si passava un rossetto scarlatto. Ero io la causa del suo malessere?
A Roma cominciai a frequentare locali, club, teatri, ce ne sono tantissimi per tutti i gusti. Una sera all’uscita dal teatro incontrai Biagio. Basso, con mani piccole e curate, da fisioterapista, una voce profonda, calvo ma tanto attraente con quegli occhi verdi. Non so cosa fu a farmi innamorare di lui, bello di certo non era. Forse la sua pacatezza, la sua solidità, il timbro della sua voce, la gioia che emanava da quegli occhi splendidi.
Gli parlai di me, della trasformazione improvvisa, di come nella vita avessi avuto tanti vuoti e di come uno, profondo e irreversibile, mi avesse cambiato la vita. Gli raccontai del Giappone, di come avessi scoperto i miei talenti, la mia voce, il rapporto con gli uomini. Lui mi guardava come se fossi una marziana, sentivo la sua ammirazione e nello stesso tempo la sua diffidenza.
Fiamma lavorava ormai da quasi venti anni come hostess: viaggiava molto, incontrava tanta gente ma in realtà non conosceva nessuno, perché quando ti muovi costantemente non hai tempo e modo di approfondire nessuna conoscenza. In compenso guadagnava bene, almeno per permettersi l’affitto di un appartamento solo per lei al quinto piano di un edificio. Parenti non ne frequentava. I genitori, divorziati, si erano rifatti da anni una vita lontano da lei e dalla sorella Anita, con la quale Fiamma aveva litigato per via di un uomo.
Da tanto tempo non sentiva nemmeno altri familiari; tutti rapporti logorati da tanti, troppi alterchi di cui non ricordava più nemmeno la causa.
Fiamma un giorno pensò che in fondo la sua presenza era indifferente per il mondo; forse persino per quel pilota che una volta l’aveva molestata. Si licenziò, perché ormai stanca di correre solo per rimanere ferma, e la compagnia trovò presto una sostituta senza rimpiangerla troppo. Ora che aveva smesso di prendere voli per lavoro, preferì tentarne uno del tutto individuale da quel quinto piano per vedere cosa poteva succedere.
E successe che, all’atterraggio, era morta. O almeno era convinta di essere morta. I folti cespugli che si trovavano nel cortile non potevano averla salvata; chi mai potrebbe sopravvivere dopo un volo da un quinto piano! Quindi era morta. Ora, però, non sapeva bene che farsene della morte, così come prima non sapeva che farsene della vita. Pensò allora che, dato che da trapassata non aveva più nessun impegno, poteva concedersi qualche drink ad un bar.
Essendo ormai estinta, pensò che il numero di bicchieri bevuti non avrebbe fatto molta differenza; la conseguenza fu che si sentì sempre meno limitata dai pensieri che tipicamente inibiscono i morti dalle comunicazioni con altre persone e provò a parlare con qualche vivo lì presente. Un approccio che ripeté spesso nei successivi sei anni, viaggiando non più in aereo ma con l’autostop e alle volte con criminali in fuga, e tornando ogni tanto a Roma ma senza mai passare nella natia Avezzano.
Un giorno un giovane di bella presenza, tale Biagio, trovò interessanti i suoi discorsi da defunta che parlava di cose da vivi quali i tatuaggi sulla pelle – come quelli presenti sul suo corpo morto – e fughe dalla legge. Fiamma non aveva finora conosciuto nessuno che, come Biagio, sembrasse interessato per davvero a quello che aveva da dire, e perciò si innamorò di lui. Decise di raccontargli tutto quello che aveva attraversato negli ultimi anni, ma senza
confessare di essere morta.
“Chi sei quando nessuno ti vede?” Questa domanda mi aveva sempre fatta sorridere ma non mi ero mai fermata a cercare una risposta.
Dico questo e guardo Biagio, nei suoi bellissimi occhi verdi. E ripenso a me, sdraiata in modo scomposto sul cemento bollente e ruvido di un mezzogiorno d’agosto, e ricordo quanto mi fosse sembrata evidente la risposta.
Ripenso a quella mattina, tra le strade gremite di persone che correvano verso un ufficio, una scuola, un’università, in cui mi ero sentita invisibile. Le persone mi attraversavano con lo sguardo, nessuno si fermava a chiedermi “come stai?”, mentre le lacrime mi scendevano sulle guance. Ero invisibile, quindi un fantasma, quindi una morta.
E allora avevo deciso. Ero salita in cima al palazzo di vetro, sul grattacielo delle Poste, e mi ero buttata giù.
Ma poi avevo ripreso a parlare, e avevo detto: “Sei viva, inaspettatamente. Viva come mai prima.”
E invece ero morta, ma se nessuno mi vede non posso morire davvero. Per sei anni ho fatto tante “prove di morte”, poi ho fatto degli incontri, ho parlato con delle persone strane, e sono arrivata con certezza a questa conclusione. L’ho scoperto così, quando mi sono sentita persa, sola, e ho desiderato morire, che non potevo permettermi di farlo in santa pace da sola. Se volevo morire dovevo esibire il mio corpo inerme, magari dilaniato, e restare così sotto lo sguardo di tutti senza poter fare nulla. E questa non è chiaramente una morte che fa per me. Ho scoperto così, morendo e non morendo, di avere un superpotere incredibile.
“Nel momento in cui mi sono data questa risposta, ho capito che la mia vita stava cambiando. Ho cominciato a prendere dei rischi, diciamo così”. Lo dico a Biagio che stringe gli occhi e, senza parlare, mi prega di continuare.
“Prendo dei rischi, a volte per aiutare le persone, a volte per altre ragioni. Se nessuno mi vede, io mi sento fortissima, Biagio. Non mi guardare così, non sono pazza!”
In quanti modi si può morire?
Infiniti, direste voi. E in effetti ne può sempre venire fuori uno nuovo.
Ma questa volta la morte ha raggiunto Fiamma in una maniera decisamente singolare.
Chi è Fiamma? Possiamo dire che è una donna moderna: riccia, rossa, alta, molto magra, vegetariana.
Come sua sorella Anita ha gli occhi verdi e un tatuaggio particolare sul braccio: l’albero genealogico della sua famiglia.
Fiamma oggi è in forte ritardo, ma deve andare al lavoro perché la compagnia aerea per cui lavora è in crisi e teme di essere licenziata al minimo pretesto. Fa la hostess.
Prende quindi una scorciatoia un po’ pericolosa, ma che le permette di guadagnare tempo prezioso. Si cala con una specie di carrucola dal terrazzo del suo palazzo.
Non è la prima volta che adotta questo stratagemma ed è abbastanza sicura di sé, ma questa volta qualcosa va storto e Fiamma precipita a terra. Tragicamente.
Ecco, queste sono le circostanze in cui Fiamma muore.
Ma, come detto all’inizio, muore in un modo particolare, perché in realtà lei si sente a tutti gli effetti ancora viva. Non ha ferite evidenti, è fisicamente intatta e le persone intorno sembrano non accorgersi di nulla, eppure la sua dimensione è diversa.
Fiamma si percepisce altro e altrove.
Chiaramente non arriva in aeroporto e per questo viene licenziata, ma ciò non la preoccupa, anzi avverte un senso di pienezza, di sé e della vita.
Strano, per una che è morta.
Eppure è così, le sembra finalmente di vivere da morta la vita che non le riusciva ad afferrare da viva.
Sente che è fondamentale per lei ritornare alle radici; decide di andare a vivere ad Avezzano, il piccolo paese abruzzese dove sono nati sia lei che i suoi genitori. E dove sognava di far nascere i suoi figli.
A 37 anni Fiamma aveva rinunciato alla maternità, ma proprio ad Avezzano trova la dimensione giusta, quella che forse cercava da tempo, quella che non sapeva di desiderare, quella che le farà incontrare, dopo sei anni, l’uomo della sua vita.
Ebbene sì, finalmente lei non si scherma più e destino vuole che accetti l’invito di Biagio, il fisioterapista del paese.
Biagio non ha nulla di affascinante. Ha passato da poco i 40 anni, è quasi calvo, porta i baffi, è persino più basso di lei e soprattutto ha un’aria triste, che solo i suoi bellissimi occhi verdi riescono a volte a stemperare.
Ma quella volta succede qualcosa anche a Biagio, perché trova il coraggio di aprirsi con questa conterranea bella e sicura di sé. Le confida che il suo sogno è portare in teatro uno spettacolo a cui lavora da tempo.
E finalmente la bacia.
È un miracolo, perché questi due hanno davvero poco in comune.
Eppure Fiamma sente che potrebbe funzionare.
C’è solo un piccolo dettaglio che Fiamma non può confessare a Biagio, cioè che lei è morta.
Dopo lo shock iniziale, Fiamma si accorge di stare bene. Non ha dolori né vede ferite sul corpo. Eppure, è sicura di essere caduta per più di dieci piani ed essersi schiantata a terra. Effettivamente, ricorda di aver urlato, di aver visto l’asfalto che si avvicinava al viso, e ricorda di aver provato paura e un dolore immenso, di sconquasso. Poi niente.
Ora sta bene. Fa per mettersi le mani in tasca, un gesto automatico. Dentro ci trova ancora le chiavi di casa e della macchina. Bah. Guida fino a casa, la portiera la saluta. Apre la porta e la sua coinquilina la saluta. Fiamma è sempre più disorientata, ma allo stesso tempo
comincia a sentirsi elettrizzata. Bello che nessuno si accorga di niente. O forse non è bello.
Fiamma sa ora di essere morta, anche se nessuno sembra accorgersene.
Comincia ad avvertire chiaramente che dentro al corpo, apparentemente identico a prima, non c’è più niente: organi, ossa, muscoli, tendini, grasso. Il suo corpo è vuoto e si rende presto conto che in quel vuoto può inglobare le persone, farle sue. Lo realizza quasi per caso quando, senza volerlo: quel giorno stesso ingloba il portiere e cena con la sua famiglia. Poi ingloba la sua compagna di appartamento e fa l’amore con il suo ragazzo. Il giorno dopo tocca all’insegnante di pilates, e mentre fa pilates si vede anche farlo da fuori e sente di desiderarsi.
Da allora, sono sei anni che Fiamma continua a vivere la propria vita, ma vive anche tante altre vite. Tutte quelle che vuole. Poi incontra Biagio, mite e quasi insignificante. Qualcosa la attira e inizia a inglobarlo, come sempre, ma non ci riesce. Quell’uomo, all’apparenza così banale, si mostra più forte di tanti altri, per esempio di Trump, che aveva inglobato tante volte tra il 2017 e il 2020, quando se ne andava in giro stringendo la valigetta con i codici per l’atomica.
Così se ne innamora Di Biagio non di Trump. Dopo quasi un anno di relazione è venuto tempo di dirgli cos’è veramente la sua vita. Ma chi
vorrebbe stare con una donna che non c’è? Una donna che è tutti e nessuno, che è da anni solo l’involucro di una donna e, allo stesso tempo, può essere tutti? Ha deciso: non gli dirà di essere morta. Gli dirà di essere una marziana.
E inizia…
Fiamma precipita da un palazzo e muore. Nessuno se ne accorge, così torna a casa con una nuova consapevolezza: da quando è morta vuole vivere appieno la vita.
E la sua vita continuava così, in continuo movimento tra le case del centro. Un giorno entrava al civico 28, un altro usciva dal civico 2. Nei giorni dispari lavorava, nei giorni pari si riposava.
Quando lavorava, un giorno faceva la hostess, un altro era dirigente di una banca, un altro ancora un pilota di aerei. Un giorno si mise a fare la presidente del consiglio, un altro a insegnare il francese a dei bambini. Nei giorni pari andava al parco e correva, ma solo se il corpo che abitava era magro. Cucinava indiano se scendeva al piano di sotto, faceva lezioni di violino se si faceva chiamare Maria e diceva di avere 25 anni. Di notte, delle volte, faceva l’amore con una donna,
altre con degli uomini di età compresa più o meno tra i 27 e i 59 anni. D’estate prendeva le ferie per molti mesi all’anno, da maggio a ottobre, e si divertiva a fare surf facendosi chiamare Claudia, alpinismo con le treccine che le scendevano lungo la schiena e senza un filo di cellulite, urlando al fidanzato «“ich liebe dich!». A Natale era sempre in Australia, a godersi le festività con 35 gradi, a Pasqua da Titina, che tra tutte le nonne abruzzesi era quella che meglio preparava il timballo di scrippelle. L’unica casa che da quel giorno non riuscì più a frequentare fu la sua, a Roma, in via Labicana, mentre spesso faceva visita a quella dei suoi genitori o di sua sorella Anita, o di qualche parente che non vedeva da moltissimi anni, dato che lei non parlava più con nessuno.
Un giorno, passando per via Cavour, incontrò Biagio. Stava leggendo un giornale e bevendo del vino bianco. Gli si avvicinò e lo accarezzò in volto. Lui non la riconobbe subito, forse per il nuovo taglio di capelli, e fece un sobbalzo. Lei, sorridendogli, gli disse: «Sono io, Anita». Lui
allora le sorrise e la baciò, poi la fece sedere. Ordinò dell’altro vino. Fu in quel momento che Fiamma si decise a parlare. Voleva dirgli tutta la verità. Biagio doveva sapere come stavano realmente le cose.
«Devo dirti una cosa»
«Dimmi»
«È un po’ complicato»
«Tranquilla, con calma»
«Sì… mmm… ecco… io non posso stare con te»
Biagio la guardava perplesso.
«Io non posso proprio starti accanto»
«Ma non mi ami? Cioè, non è scattato niente in questo tempo?»
«Sì, certo, anzi, è che io proprio non posso stare con te»
«Ma come? Che significa? Cosa provi per me?»
«Un amore profondo e disperato»
Biagio non capiva, allontanò la bottiglia.
«Ma, ecco, non mi sento viva»
«Anita, ma stai bene?»
«No, Biagio, no, sento di nuovo una pesantezza sul petto… portami a casa»
Fiamma. Di nome ma non di fatto. Perché fiamma non brucia. Non è ardente.
Non più almeno.
Da quando la sorella Anita l’ha lasciata è diventata ancora più esile. Dimentica di mangiare, dimentica di lavare i suoi lunghi ricci rossi. Dimentica di andare al lavoro, di lasciarsi catapultare su un aereo da una parte e l’altra del continente per poi ritornare alla sua Roma, tatuata sulla pelle. Fiamma dimentica di vivere.
Si trascina per le strade e i vicoli più nascosti alla ricerca di una sola cosa: un posto dove morire. Per non sentire più la mancanza di quella sorella-amica-complice così pura e delicata. Entra in un palazzo e pensa che forse morire è una scelta poco rispettabile ed egoista, almeno in apparenza. Intanto sale le scale, gradino dopo gradino, sempre più su. Sa che è lo spazio giusto per buttarsi di sotto. È il palazzo di Gianni e Sofia. Quale dolore più grande potrebbe dare ai suoi genitori?
Ma la disperazione è estrema, si sa, non guarda in faccia nessuno. Il dolore attraversa e inghiotte, mentre velocemente si ritrova su.
È un attimo, il coraggio di un istante. Ed è lo schianto per terra.
Uno-due-tre-quattro-cinque secondi e Fiamma non sente niente, appiccicata all’asfalto come sabbia bagnata alla pelle. Non sente più l’unico luogo posto in cui non esistono specchi su cui sdoppiarsi: il suo cuore.
Ha smesso di battere. Ha smesso di vivere. Morta di dolore.
Defunta. E sola.
Non c’è nessuno intorno a lei.
Nessuno di accorge del suo corpo in una pozzanghera di sangue che sanguina e sanguina, mentre lei si rialza in piedi un pò confusa, un po’ debole, un po’ barcollante, un po’ patetica. Un po’.
Riprende a camminare per le vie della città tra le mille facce. “Che paura fanno certe facce”, pensava prima. Adesso le immagina persino capaci di amarsi in silenzio. Sfida l’indifferenza dei passanti con un sorriso, ammira il calore del sole che le asciuga le ferite, il lieve vento che l’accarezza ora. Dettagli che non riusciva più a cogliere. Tratti di vita vera.
Comincia persino a credere che possa esistere l’amore anche per lei, una possibilità di amare ed essere amata.
Dovrà aspettare sei anni per incontrare due bellissimi occhi verdi che la fissano da un palco di un teatro. Lei è seduta in prima fila, li riconosce e se ne innamora, sa cosa stanno attraversando. Per questo, prima che la relazione diventi seria racconta a Biagio cosa le ha riservato l’esistenza; di essersi accorta che la vita è uno schianto, in entrambi i sensi: per le volte in cui ci sbattiamo contro e per la sua bellezza collaterale.
“Il tempo si cancella quando precipiti”.
Fu l’ultimo pensiero che Fiamma ricordava della sua vecchia vita, che sparì istantaneamente quando impattò il suolo bagnato dalla pioggia dopo essere precipitata dal settimo piano di un brutto palazzo dell’EUR.
Il primo pensiero di quella nuova, invece, la portò ad Einstein: “non esiste un unico tempo assoluto”. Quanti istanti fossero trascorsi tra quei due pensieri non seppe quantificarlo secondo il tempo lineare che prima scandiva le sue giornate.
Quando si rialzò da terra l’asfalto era asciutto e lei anche. Si guardò intorno per cercare le tracce di quella “caduta di un grave da un punto x a un punto y”, ma non ne trovò. Non le scoprì nel suo corpo: non una frattura, non un graffio, niente sangue o tracce evidenti dell’impatto. La sua chioma riccia e rossa era lì, alla fine del suo metro e ottanta.
“Sei morta?”, si chiedeva. “Si, ma solo per un po’!” era la risposta che le arrivava da dentro, mentre riprendeva la strada di casa.
Quando arrivò al suo portone si accorse di non avere le chiavi, così citofonò in portineria e il portiere le aprì: “Ti sei scordata di nuovo le chiavi?”, le disse. “Sì”, rispose neutra.
Chiuse la porta di casa alle sue spalle e cercò il cellulare, per vedere se qualcuno aveva notato la sua “assenza”. Del resto, sempre Einstein diceva che ogni individuo ha una propria e personale misura del tempo, che dipende da dove si trova e da come si sta muovendo.
Fu l’indifferenza del mondo alla sua morte, la consapevolezza di questo dolore a riportarla davvero in vita e a farle prendere la decisione profonda di vivere ogni istante come se fosse l’ultimo. Di nuovo.
I sei anni che seguirono furono folli e intensi. Essere un’hostess su voli intercontinentali la aiutò a fare tutto quello che poteva con questa nuova vita.
Un giorno qualunque, sull’ennesimo volo per Hanoi, incrociò un paio di occhi azzurri sul volto di un uomo apparentemente triste, con i baffi curati e praticamente calvo, che le chiese un gin tonic mentre si trovavano sospesi chissà dove, in un punto indefinito tra Roma e l’Oriente.
Gli occhi di Biagio impararono presto a guardarla senza indifferenza.
Un mese dopo Fiamma, davanti a quegli occhi azzurri, splendidi, che guardavano i suoi, verdi, incorniciati dalla sua chioma riccia e rossa, si ritrovò a pensare che non sapeva come dire a quell’uomo, di cui si era innamorata, che era morta. Anche se solo per un po’.
Caldo soffocante. Fiamma con noncuranza attraversa Viale Carso, mentre il suo soprabito bianco con intarsi fucsia svolazza elegante sui pantaloni della stessa tonalità. Non una goccia di sudore brilla sulla sua pelle bianca, sempre pallida anche dopo il mare, né lei esprime fastidio per l’insolente calura che opprime l’asfalto. Con passo deciso ma non affrettato, guarda dritta avanti a sé, assorta e severa, come se stesse ripetendo un promemoria.
Maneggia con cura il pacchetto che ha nella mano, come se potesse romperlo o peggio perderlo, sebbene non sembri appena incartato.
Si infila in un portone scuro e ombroso, scuote appena i voluminosi ricci per cercare le chiavi e il telefono. Biagio non risponde.
Controlla l’ora; dal giorno dell’incidente ha sempre un orologio al polso: le piace abbinarlo agli abiti che indossa e non smette di tenerlo d’occhio, come se avesse sempre paura di perdere del tempo, proprio lei che ne ha tanto!
Appoggia con cura il pacchetto sul tavolino del salotto ed entra in cucina, quando il pensiero di Anita la distrae. Si blocca, resta assorta per un momento ma si riprende subito. Ecco che il telefono la riporta in salotto: è Biagio, sta arrivando.
Mette via il pacchetto e prepara qualcosa da mangiare: non è mai stata brava in cucina, ma in questi sei anni ha scoperto che può essere piacevole. “Oggi. Sarà oggi”, dice a voce alta, fermandosi con il coltello a mezz’aria e seguendo dei piccoli cerchi con la punta.
Quando entra Biagio, accaldato e contrariato, si china leggera per un soffice bacio e al contatto con la sua camicia umida si accorge di non aver ancora tolto il soprabito. Non ha mai caldo e neanche freddo a dir la verità.
Oggi Fiamma è più sorridente del solito, più accattivante. Bevono. Lei è sempre più seducente, lo guarda come se fosse la prima volta dietro quei vivaci occhi verdi.
Biagio sente ancora più caldo, non solo per il Campari che lei gli ha offerto in salotto.
Ma, come lo sparo di un fucile, il telefono – ancora lui – interrompe quel vortice.
«Devo partire», fa seria dopo la telefonata di Anita.
«Dove, stavolta?», ribatte Biagio.
«Chiedimi piuttosto quando torno»
«Beh… i soliti 3 giorni», fa Biagio.
«Stavolta di più, ma con una novità», lo incalza lei
«Cioè?»
«Potrei non tornare»
«Che dici?»
Fiamma prende allora il pacchetto e comincia a scartarlo lentamente. Lui non parla e la osserva. Lei si ferma.
«Mi faresti un favore?», gli chiede accennando un sorriso.
«Si, certo. Ma spiegati.»
«Se non dovessi tornare consegna questo pacco ad Anita». Dopo altro silenzio e lo sguardo interrogativo di Biagio, aggiunge «Mia sorella».
«Insomma, spiegati. Oggi sei misteriosa.»
Fiamma si alza e cammina verso la finestra, poi si gira, si rimette seduta accanto a lui e, guardandolo negli occhi, gli sussurra «Ma tu mi conosci?»
Biagio sospira «Oggi sei misteriosa, che succede?».
Lei ripete «Ma chi sono, mi conosci?», e aspetta la risposta.
Biagio, dal momento che non smette di guardarlo e sembra intenzionata ad ottenere una risposta, inizia: «Sei una meravigliosa ragazza che frequenta uno sfigato come me. Non so perché, visto che non sono spumeggiante come te».
«No». Lei lo blocca. «Scendi ancora più giù. Tutti questi viaggi, questi libri, queste assenze, i ritorni, che ti dicono? Non ti sei accorto che non dormo? Ho sempre con me questo pacchetto e non mi hai mai chiesto mai cosa contiene. Ormai non lavoro da tanto. È vero che ero hostess, ma i miei viaggi ormai sono solo assenze o presenze. Non posso più fingere con te. Ho imbastito una vita per salvarne un’altra: mia sorella. E tutto quel che vorrei ora è salvare la mia vita, con te».
«Cosa c’è in quel pacchetto, Fiamma?»
«Aprilo tu».
Biagio apre e trova tre foto: una che ritrae due adolescenti identiche, gemelle, stesso taglio di capelli, pantaloni e maglione; nell’altra c’è una sola delle gemelle con i genitori, Gianni e Sofia; nella terza un cimitero e una bara.
Fiamma è proprio un nome di merda. Adesso mi alzo e cambio nome.
Mi chiedo come abbia fatto in tutta la mia vita anche solo a sopravvivere con un nome del genere. Dovevo morire per rendermene conto. Anzi rimorire. Questa è la dodicesima volta che muoio per vivere appieno la mia vita. E infatti non ho scelto a caso di buttarmi dal palazzo dell’anagrafe. Dovevo capire se veramente il mio fosse un nome di merda.
So benissimo che ci sono cose molto più importanti che valeva la pena approfondire, ma questa del nome mi assilla dal 12 settembre 1992, primo appello nella scuola elementare Mazzini di Avezzano. Impossibile dimenticare quel senso di vergogna e quella fortissima necessità di andarmi a nascondere in bagno. Di sparire.
Ad ogni modo eccoci qua. Ora la consapevolezza che Fiamma sia un nome di merda è chiara. Non resta che rialzarmi, rientrare nel palazzo dell’anagrafe dalla porta principale e recarmi al terzo piano, entrare nella stanza 8 dell’Ufficio di Stato Civile e dire: “Salve sono Fiamma. Anzi ero Fiamma. Da domani sarò Maria”. O forse è meglio Paola? Mi sa di sì, è meglio Paola. Senza dubbio. Certo, Maria è il nome che piace a Biagio. Forse dovrei risalire e ributtarmi di sotto per capire se Paola è meglio di Maria. Penso che dopo essere stato per sei anni con Fiamma anche Paola potrà andare bene a Biagio. Biagio lo amo per questo. È un tipo che si adatta facilmente. A tutto. Non ha fatto una piega, neanche quando gli ho spiegato che se mi butto da un palazzo, cado, sbatto per terra e capisco cose che non ho mai capito. L’unica cosa che non gli ho detto è che quando cado muoio. Cioè, che in qualche modo muoio. Forse una vecchia parte di me muore veramente. Tra due mesi ci sposiamo e ho paura che questo possa turbarlo troppo.
E se non fosse l’uomo giusto per me? Se potessi stare solo con un mio simile, in grado di morire e poi morire ancora, nell’indifferenza generale? Ma io amo Biagio e forse è arrivato il momento, dopo sei anni, di rivelargli anche questo segreto. Lo farò stasera, non come Fiamma, ma come Maria. O come Paola? Guarda che bella finestra grande, un salto e tutto sarebbe più chiaro. No, devo resistere.
“Buongiorno sono Fiamma. Ho un appuntamento per il cambio nome.”
Dal laboratorio Scritture Aperte
Ipotesi di iperromanzo
Questo capitolo fa parte di un’ipotesi di iperromanzo dal titolo provvisorio “C’è vita su morte”, scritta durante il laboratorio Scritture Aperte 2024-25. In ogni incontro viene assegnato ai partecipanti un punto di inizio e un punto di fine e ognuno scrive la propria versione liberamente. Il risultato è un multiverso: ogni capitolo racconta un punto di vista diverso, un universo possibile della storia.